YUKONSTYLE @ Teatro Studio Uno: esser felici? roba da niente nello Yukon!

Crudo, introspettivo, a tratti tagliente ma dal retrogusto dolce-amaro, così YUKONSTYLE si presenta ai nostri occhi, al Teatro Studio Uno fino al 25 febbraio.
Una piccola sorpresa, per noi che varchiamo il teatro in cerca di stimoli nuovi e che li troviamo non troppo incredibilmente, proprio nei contesti più off.
Vivace nella resa, lo spettacolo è il frutto di un lavoro di ricerca ben svolto dalla Compagnia BiTquartett che porta in Italia, per la prima volta, il testo YUKONSTILE (
Playwrights Canada Press ) della attrice/drammaturga canadese Sarah Berthiaume, già andato in scena al Théâtre d’Aujourd’hui di Montréal, ma anche a La Colline – teatro nazionale di Parigi, a Bruxelles, a Heidelberg, a Innsbruck e a Toronto.

[In scena una grande periferia canadese “alla Munro”, che inghiotte tutto. La solitudine divorante e frustrante. Quattro bravi interpreti alle prese con personaggi fragili e disadattati. Una bambolina giapponese che scompiglia la loro inerte routine, tante parole scritte su una lavagna scura come la Notte che tutto inghiotte e la musica di Neil Young che strazia il cuore].
#davedere

Siamo nella grande periferia canadese rurale dello Yukon: due coinquilini, Yuko di origine giapponese e Garin, meticcio pellerossa autoctono, accolgono in casa una ragazzina canadese, Kate, vestita in stile Harajuku (stile "bambola giapponese") in giro per il continente sui pullman Greyhound dove è rimasta incinta di uno sconosciuto. Dapprima osteggiata, la ragazza resterà in casa, portando una ventata di novità nella vita dei due proprio mentre si disvelerà un segreto che avvolge la madre di Garin, scomparsa molti anni prima e di cui il padre di Garin non ama parlare.

Il titolo dello spettacolo gioca fin dal principio dall’assonanza fra il nome della regione canadese dello Yukon ed il nome di una delle interpreti, Youko, ma allude anche alla moda giapponese dell’ “Harajuku” diffusa fra le adolescenti in Giappone per costruire una serie di richiami originali a due culture lontanissime, accumunate nella figura di Kate che smuove la realtà triste e monocolore della (apparentemente) immobile provincia canadese coi suoi colori vivaci e provocanti al punto giusto.
Sì perché, anche se a prima vista “Non c’è niente che non va nello Yukon”, in realtà poi, in queste lande desolate si celano diffidenze sociali palpabili, rabbie sopite, alcolismo e prostituzione soprattutto fra i Nativi americani, serial killer in azione e incomunicabilità feroci come quelle fra la coinquilina e Garin, e fra quest’ultimo e il padre. Incomunicabilità che vediamo svolgersi attraverso gli occhi di Kate, che involontariamente richiamerà, con il suo arrivo, tanti fantasmi dimenticati e tanta frustrazione su cui lavorare, per fare pace con un Passato decisamente doloroso e andare avanti meno soli.

Il testo è una trasposizione di una drammaturgia di pregiata fattura, che non rinuncia a colloquialismi ed espressioni crude e allusive, senza esagerare, mantenendo però sempre alta la cifra realistica; al tempo stesso richiama quello stile letterario canadese che privilegia la narrazione di contesti naturalistici immensi e dispersivi, (alla “Munro” per farsi un’idea) nei quali la semplice umanità, priva di una particolare specialità caratteriale (come quella di Garin e Youko) finisce per smarrirsi, quasi risucchiata dalla grandezza della Natura, da quella immensità divorante che genera una solitudine senza tempo, che lascia l’uomo solo con se stesso troppo a lungo, schiavo dell’alcoolismo e dei ricordi di una passata felicità e grandezza; o alle prese con una sintomatica routine lavorativa priva di scopo (emblematica la scena in cui Juko e Garin si lanciano continuamente piatti del ristorante dove lavorano) e con rapporti personali ridotti all’osso e mai del tutto espressi a voce alta, anzi, faticosamente costruiti nel tempo.
Le 4 personalità sono di fatto sradicate dal contesto pur vivendoci da tempo, lo disprezzano e ne temono la capacità annichilente quella forza riduttiva in polvere, che prima porta alla confusione, alla violenza, alla depravazione, al ricordo doloroso.
Eppure, saranno proprio loro le chiavi della propria salvezza, cercando dentro di loro la chiave per cambiare, appoggiandosi all'elemento umano quello vivo e presente, al rapporto sincero con gli altri che tanto manca (non solo) nello Yukon.
E nemmeno lo sapranno, per un po’.

Buona l’interpretazione dei quattro della Compagnia BiTquartett: Marianna Arbia, Marco Canuto, Benedetta Rustici e Lorenzo Terenzi sono chiamati  a volte, anche a impersonare più ruoli e a cimentarsi con performance musicali e canti piuttosto accalorati e ben riusciti, seppure un po’ alti nell’esecuzione. Sono convincenti, seppure in momenti diversi, in particolare nella prima parte; purtuttavia emergono maggiormente coi monologhi delle scene finali e colpiscono duro, soprattutto Kate (intensa e credibile Benedetta Rustici) con un monologo fra i più sferzanti e riusciti. Si contrappone la delicatezza recitativa di Marianna Arbia e le performance più fisiche di Marco Canuto e Lorenzo Terenzi.

Dal punto di vista registico emerge nella prima parte qualche frenesia di troppo, qualche sovrapposizione di voci e musica. La regia rinuncia alla scelta di caratterizzare con trucco e parrucco gli interpreti, salvo Kate, che spicca per questo su tutti, per la parrucca rosa e le pose da bambolina sexy, nonostante il testo e la drammaturgia richiamino invece le differenze etniche come elemento caratterizzante anche degli altri personaggi.
Qui e lì però, avremmo gradito un maggiore avvicinamento al narrato (dove si parla di una ragazza con “il piumino rosa”, questo dovrebbe comparire!) mentre sono ben riusciti gli innesti musicali preziosissimi di Neil Young, ben intrecciati allo svolgimento della trama.

La regia sceglie di interrompere la trama e far raccontare ai personaggi l’evoluzione delle vicende confondendo, forse volutamente, le considerazioni personali e quelle da narratore onnisciente in un mix narrativo piacevole che spezza il ritmo e ci permette di andare oltre le vicende riprodotte, e scavare così nei sentimenti dei protagonisti. Una specie di straniamento brechtiano, leggero ma insistente che è anche funzionale alla progressione degli eventi narrati.
Intelligente, poi, la fissazione dei contenuti delle scene sulla parete “lavagna” del Teatro Studio Uno: quelle parole, che scandiscono gli inizi delle scene, e che vengono scritte dagli stessi attori mentre recitano sono le testimonianze silenziose delle esistenze di questi personaggi, che lasciano un segno sul muro scuro e nero della Vita, sperando che non si perda per sempre. Ci fanno sentire la loro triste desolazione di “abbandonati”, una metafora del senso di disillusione e spavento di tutti noi rispetto alla realtà nella quale siamo immersi, il nostro Yukon personale, un mondo che ci inghiotte nell’oscurità dell’oblio.
Finito lo spettacolo restano in mente delle frasi che sono anche dei sentori: “In fin dei conti qualcosa ci aspetta: la Resilienza” ed è davvero così.
Usciamo dal teatro Studio Uno e ci immergiamo nella oscurità della notte per tornare a casa, nel Nulla divorante del nostro Yukon personale, eppure, pensiamo, un amico ci aspetta, possiamo essere anche “felici” e non più soltanto “soli” del resto, mica “Esser felice, è roba da niente”…

Info:
BiTquartett
presenta  

Yukonstyle di Sarah Berthiaume

traduzione e regia Gabriele Paupini
con Marianna Arbia, Marco Canuto, Benedetta Rustici, Lorenzo Terenzi
aiuto regia e luci Francesca Zerilli
costumi Benedetta Rustici

Co-produzione BiTquartett/Teatro Studio Uno

Dal 15 al 25 febbraio 2018
Teatro Studio uno
 via Carlo della Rocca, 6  Roma

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