Con White rabbit, red rabbit dell’autore iraniano Nassim Soleimanpour, evento speciale in collaborazione con Middle East Now Festival di cinema e culttura contemporanea sul Medio Oriente, si è conclusa la rassegna Materia Prima curata da Murmuris al Teatro Cantiere Florida di Firenze. Fabrizio Gifuni si è messo alla prova in un gioco sperimentale fatto di improvvisazione e creato ad hoc per stupire e sconvolgere. Dopo aver recensito tutta la rassegna vi raccontiamo anche questo particolare spettacolo di chiusura.
a cura di Leonardo Favilli e Sandra Balsimelli
La scena si presenta a sipario aperto, davanti al pubblico un tavolo al centro, due bicchieri d’acqua disposti su di esso, una sedia da un lato e una scala a pioli dall’altro. All’entrata in scena l’attore trova solo una busta chiusa, che apre davanti al pubblico, con il copione precedentemente lasciato sul palco da un’addetta del teatro. E’ così che inizia il gioco ed esperimento teatrale che in questo caso mette alla prova le capacità di Fabrizio Gifuni di fronte al testo di Nassim Soleimanpour. Giunto il momento dell’apertura della busta, ha inizio un percorso di cui non possono essere svelati le asperità, le tappe, gli attori, le emozioni e nemmeno le suggestioni perché significherebbe tradire la fiducia che lo stesso Soleimanpour ripone nel pubblico e nell’uomo sul palcoscenico. Ogni parola che tentasse di descrivere lo spettacolo ne dissolverebbe irrimediabilmente l’effetto: lo si può solo attraversare in prima persona, indipendentemente dall’essere attori, spettatori o, chissà, entrambe le cose, visto il confine sempre più sottile che divide questi due mondi allo specchio.
Fabrizio Gifuni diventa così il detentore unico ed assoluto di un testo ignoto che prende vita e corpo nel momento in cui le parole fluiscono dal copione verso lo spettatore per mezzo dell’attore. A lui viene affidata questa responsabilità, sua unica certezza in un oceano di indeterminatezza dove ognuno nella sala è immerso.
Ogni autore scrive normalmente un testo, sapendo che questo sarà affidata al corpo e alla voce di attori e attrici e, presumibilmente, le parole che vengono messe loro in bocca rispecchiano il suo pensiero e magari la sua antitesi in una dialettica che si costruisce sul palcoscenico al fine di dare risposte o di porgere domande. Soleimanpour non tradisce questa missione del teatro ma decide di caricare lo spettacolo di un’ulteriore responsabilità: dialogare con il pubblico, come se quei fogli sul palcoscenico fossero lui: “Il testo è il posto migliore dove vivere per uno scrittore come me”. Fabrizio Gifuni diventa pertanto doppiatore di un ruolo che nella versione originale è muto. E allora si costruiscono mano a mano immagini, suoni, suggestioni di cui lo spettatore diventa prezioso portatore, consapevole che nessun altro potrà mai vivere quella stessa esperienza, perché legata indissolubilmente a quel tempo e a quello spazio.
Le regole del teatro sono sovvertite, il confine tra realtà e finzione pure, trapela denudata l’intelaiatura della comunicazione tra gli esseri umani del nostro tempo, cui è dato essere qui e altrove nello stesso momento, al costo irrisorio di un clic sulla tastiera. Distanze, culture, significati diventano strade di un pellegrinaggio inconsapevole, possibile a tutti, anche a chi, come l’autore, è precluso viaggiare attraverso i confini fisici delle nostre nazioni. Dalle sue parole trapelano bagliori del suo Iran, da cui il testo tenta di raggiungere altri da sé, insinuando con ironia una serie impossibili di domande aperte: a chi vanno le parole che parliamo, scriviamo, diffondiamo? Chi decide nel nostro mondo il ruolo che interpreteremo? Attori o spettatori? E qualunque cosa ci sia toccata laddove finisce la nostra innocenza, dove inizia la nostra responsabilità?
Gifuni presta se stesso al gioco di Soleimanpour con umiltà e dedizione cercando di affrontare con ironia alcuni passaggi, alternati ad altri in cui invece le parole si fanno pesanti e vengono scolpite nella tensione palpabile che circola all’interno del teatro. Una tensione che non viene affatto scalfita neanche dalle luci perennemente accese, seppur soffuse, sul pubblico, come se lo spettacolo non fosse mai iniziato ma fosse in corso una prova. Buona la capacità dell’attore di spostarsi sul palcoscenico, cercando di gestire gli spazi a sua disposizione con naturalezza e senza forzature che avrebbero rischiato di privare la messa in scena di quella istantaneità fondamentale per il messaggio dell’autore. Solo in alcuni tratti Gifuni è sembrato poco a suo agio con il testo ma la sua capacità di ironizzare e la sua volontà di mettersi in gioco hanno sempre e comunque avuto la meglio, rendendo la sua prestazione degna di lode.
Del resto la sfida sembra essere anche questa: denudare e far emergere i cliché della finzione teatrale e di vivere senza difese lo straniamento, lo stupore, l’impossibilità di rifugiarsi dietro le proprie sicurezze in quanto non pre-parati a ciò che accade passo per passo.
Nel corso della rappresentazione in fieri, White rabbit, red rabbit si rivela un esperimento non solo teatrale ma sociologico che crea un’empatia, tra pubblico e attore, a tratti insostenibile, tanto da costringere gli spettatori ad intervenire dalla platea per costruire un dialogo con Soleimanpour che proprio quest’ultimo vuole instaurare. Non ci sono morali da apprendere, né significati suggeriti, c’è solo l’inevitabile richiamo alla fatica individuale di cercarli e allo sforzo collettivo di partecipare da protagonisti, di stabilire relazioni oltre le barriere.
E così, carichi di un fardello di emozioni, suggestioni e domande, gli spettatori lasciano la sala consapevoli di aver assistito ad un unicum che in quanto tale vorrebbe e potrebbe essere raccontato ma che allo stesso tempo si vuole trattenere segretamente. Infatti, se lo scrittore ha la responsabilità di un’invenzione, il pubblico ha la responsabilità del suo uso.
Info:
WHITE RABBIT, RED RABBIT
di Nassim Soleimanpour
con Fabrizio Gifuni
produzione 369 Gradi
Direzione Generale Valeria Orani
Teatro Cantiere Florida
14 aprile 2018
Materia Prima