WHEN THE RAIN STOPS FALLING @Teatro Metastasio: dell'infinito movimento del tempo

In scena al Metastasio di Prato, per l’accurata regia di Lisa Ferlazzo Natoli, WHEN THE RAIN STOPS FALLING (Quando la pioggia finirà) traduce in scena il testo intimo e distopico dell’autore australiano Andrew Bovell. La storia di due famiglie, i Law e gli York, quattro generazioni di padri e figli, delle loro madri e mogli, avanti e indietro nel tempo, mentre la pioggia forse si accinge a cancellare dal mondo l’umanità e tutti i prevedibili e imprevedibili legami, ciò che sappiamo e ciò che non sapevamo di sapere.

Il contenitore della lunga storia, apparentemente rigido, è in realtà incredibilmente variegato. La fabula si scandisce in uno spazio scenico fisso, nudo, vuoto, eccezion fatta per lo splendido fondale realizzato da Rinaldo Rinaldi (un arazzo d’oro spento dalle mille sfumature che lo svariano da un boschetto di canne a una lamiera scintillante di pioggia a un cielo mai esistito), abitato da pochi oggetti: un tavolo allungabile, sedie diverse e una cucina antiquata. Questo unico luogo deputato diventa successivamente la stanza dell’uno o dell’altro personaggio, come recita la mappa che, unica ancora di salvezza, il programma di sala regala allo spettatore, perso nel labirinto delle storie, dei nomi, dei salti temporali. Un luogo all’interno, intimo, squallido e dolce. Costumi omogenei, vestaglie, lunghi maglioni, spesso deshabillé per le donne, confortevoli e sensuali; incarnate da attrici impeccabili, come tutta la compagnia del resto, impegnata in una complessa prova corale di grande armonia.
Brevi escursioni en plein air, una spiaggia nel Coorong, d’inverno, una strada insanguinata, una montagna da raggiungere nel nome simbolico di Saturno, divoratore dei propri figli. Le donne restano, spesso, gli uomini partono, viaggiano, fuggono – o vengono allontanati.

Dal 2039 al 1959 il tempo balza, si curva, si alterna, segnalando nelle battute i suoi nodi dorsali: i carrarmati su Praga, lo sbarco sulla luna, Margaret Thatcher. Una macrostoria che ha già i suoi vangeli, come “Il declino e la caduta dell’impero americano 1975/2015” ma non permette nessuna sicurezza. Il tempo batte e scorre sottile e imprevedibile (flashback e flash forward), flettendosi secondo un principio di indeterminazione inaudito, che permette ai personaggi di percorrerlo, curvandolo in avanti, sporgendosi per intravedere il futuro e i suoi fantasmi, o squarciandolo misteriosamente, per autorizzare un lampo di luce su un passato sempre oscuro, incompreso, un gioco che ci gioca, noi inconsapevoli. Passeggeri del tempo, i personaggi si permettono di indugiare sulla soglia della nicchia altrui, permanendo in scena o uscendone con lungo indugio, quando già la storia altrui si attiva: un procedimento che secoli prima Pietro Aretino aveva già inaugurato, con modernità straniante che si sfuma qui in una indeterminazione metateatrale, profondamente filosofica.

Il tempo è un fascio di temporalità congiunte. Semi di senso echeggiano da un decennio all’altro, da un personaggio all’altro, e possono essere giochi di parole, o insensate e simboliche ricorrenze: il cappello smarrito, la zuppa di pesce, la vestaglia. Echi inconsapevoli, slittamenti impercettibili di senso, semi e sintomi del meccanismo fatale dell’eredità, della genetica, tappe cieche del funzionamento della memoria, inconsapevole, irrefrenabile.

Il testo, terribilmente genealogico riecheggia le tragedie greche. “So cosa vuole: vuole quello che tutti i giovani uomini vogliono dai loro padri. Vuole sapere chi è. Da dove viene. Dove sia il suo posto”, sussurra a se stesso Gabriel York, padre inattendibile in attesa di un figlio sconosciuto. La trama conosce la stretta tipicamente tragica, il vortice, la caduta terribile dei velari, come la battuta emblematica di Giocasta: “sventurato, possa tu non sapere mai chi sei”.

Nessuno dei personaggi sa chi è, in un gioco di specchi ambiguo e terribile che mette in scacco anche il pubblico, nelle stesse condizioni di quello che sedeva nel teatro di Dioniso: incapace di mettere insieme i tasselli, per i limiti dell’intelletto umano o per i giochi degli dei. Quando il vortice tragico si stringe, e la verità sembra appressarsi, comprendiamo che una delle componenti profonde di memoria e verità è che il tempo è molti tempi, infinito, multiplo, intramontabile.
I morti non se ne vanno più, non escono più di scena, e i personaggi continuano a vivere così, inconsapevoli di quanti sono partiti, di quanti se ne vanno, di loro  stessi  che partono a loro volta: circolano con naturalezza in mezzo alle loro morti.
Adesso, le mille facce della vita e del tempo, eccole davanti a noi. Tra vertigine e consolazione.

Info:
WHEN THE RAIN STOPS FALLING Quando la pioggia finirà
di Andrew Bovell
da un progetto di Lacasadargilla
regia Lisa Ferlazzo Natoli
traduzione Margherita Mauro
con Caterina Carpio, Marco Cavalcoli, Lorenzo Frediani, Tania Garribba, Fortunato Leccese, Anna Mallamaci, Emiliano Masala, Camilla Semino Favro, Francesco Villano
scene Carlo Sala
costumi Gianluca Falaschi
disegno luci Luigi Biondi
disegno del suono Alessandro Ferroni
disegno video Maddalena Parise
produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione, Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Fondazione Teatro Due
con il sostegno di Ambasciata d’Australia e Qantas
foto di Sveva Bellucci

Teatro Metastasio
23 febbraio 2020

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