Direttamente dal celebre Festival d’Avignone, arriva al Teatro di Rifredi WE LOVE ARABS, il dissacrante spettacolo di teatro e danza contemporanea del coreografo israeliano Hillel Kogan, assistente di Ohad Naharin, creatore del linguaggio “Gaga” per danzatori e attori. In replica fino al 21 gennaio. Negli stessi giorni, organizzato da Luv Dance Movement, un seminario Gaga/dancers per danzatori e studenti di danza al Magma di Firenze tenuto dallo stesso Kogan.
Il Teatro di Rifredi non è nuovo a queste incursioni creative dall’estero, scovate andando a cercare a giro per il mondo tra i festival di arte scenica contemporanea e di ricerca. In questa stessa stagione, ad ottobre, ci ha stupito con UN POYO ROJO, intenso e divertente spettacolo di teatro fisico con Alfonso Baròn e Luciano Rosso dall’Argentina; stavolta ci riprova con WE LOVE ARABS, con Hillel Kogan e Adi Boutrous, spettacolo insignito dell’Outstanding Creator of 2013, premio assegnato dai critici israeliani di danza.
La performance, ironica, intelligente e concisa, porta in scena la storia di un coreografo isreaeliano che sceglie un ballerino arabo per affrontare il tema della convivenza in Israele tra ebrei ed arabi, uno spettacolo politico che porta un messaggio di pace e coesistenza, che si interroga sull’identità, che nel mettere in scena le differenze, si arrende all’uguaglianza tra gli uomini.
La scena vuota e illuminata da una sola luce bianca apre lo spettacolo, Hillel Kogan interpreta una versione esasperata e quasi irrante di se stesso, ballerino e coreografo israeliano di fama internazionale, proveniente dalla prestigiosa Batsheva Dance Company di Tel Aviv, dichiara di voler condividere col pubblico le proprie riflessioni sul senso dell’arte, sulle sfide del processo creativo, sulla danza e il corpo. Il pubblico si aspetta uno spettacolo di corpi ed atmosfere e invece è invaso da mille parole del coreografo.
Lo spazio è abitato dai movimenti di Kogan con naturalezza e competenza, come accade coi grandi ballerini, che si muovono senza far percepire al pubblico le difficoltà, sembra nuotare nell’aria mentre spiega e illustra la propria volontà di esplorare anche gli spazi che lo respingono, che non gli appartengono, “quelli dove il corpo non si sente a proprio agio, che – come dice – sono gli spazi occupati da un arabo”. Il danzatore israeliano si prende in giro fin dalla presentazione, saccente, intellettuale, ponendosi su un piano di superiorità che non abbandona fino alla fine dello spettacolo.
Ma tutto prende senso se lo spettatore accetta la feroce e dissacrante ironia proposta, la demolizione degli stereotipi del difficile rapporto tra ebrei e arabi, l’autoderisione negli atteggiamenti da coreografo, che per ogni sciocchezza ha inventato un nuovo metodo con inutili sigle (ICS, GCS…), decostruzione della stessa danza contemporanea dove tutto deve avere senso anche un paio di posate, o un piatto di humus.Quando entra in scena il danzatore arabo Adi Boutrous, lo specchio ironico diventa evidente: il ballerino, in parte rassegnato in parte divertito, segue le indicazioni del coreografo con una danza forte e intensa, non commenta, resta nel ruolo di allievo.
Ogni tentativo di Kogan di indagare le differenze tra arabi e ebrei falliscono. I due ballerini si assomigliano, nessuno dei due ha tratti etnici distintivi, Adi Boutrous ha gli occhi chiari e un nome poco arabo. “Potevi chiamarti Mohamed” commenta Hillel “mia madre avrebbe capito meglio quello che stiamo facendo”. Così per segnare in modo indelebile le proprie identità chiede di marchiarsi a vicenda con una Stella di David sulla maglietta e una Mezza Luna sulla fronte, che chiama il croissant sulle moschee. Ma anche questo tentativo fallisce, perchè Adi dichiara di essere cristiano, ed anche lui di Tel Aviv. I due uomini si scoprono simili, danzano con la medesima intesità ed occupano lo spazio con la stessa naturalezza.
Le tante parole di Hillel Kogan contrastano con i silenzi di Adi Boutrous, in un rapporto politicamente scorretto di prevaricazione e derisione, Kogan chiede a Boutrous continuamente se conosce cose ovvie e resta stupito della sua tranquillità, fa riferimenti ad ipotetiche tradizioni folkloristiche che Adi smentisce puntualmente. Hillel ha premesso che è di sinistra, che legge tutti i giornali giusti, che è per la pace, che vuole abbattere il muro di separazione, ma con questo atteggiamento rivela il sottile e inconsapevole razzismo di tutti noi nell’incontro con l’altro, “due fiori della stessa famiglia non sono mai uguali” afferma e, anche se non conclude mai decendo che sono comunque fiori, resta questo il pensiero dello spettatore.
La definitiva demolizione degli stereotipi avviene quando Kogan propone l’Humus come il simbolo della propria identità culturale, piatto sia israeliano che arabo, consegna alla ciotola di pastella di ceci, portata in scena, significati antropologici che diventano comici e surreali, impiastra i volti di entrambi che danzano scambiandosi la ciotola fino ad approdare in platea ed offrire l’Humus su pezzi di pita, come un sacerdote porge un’ostia ai suoi fedeli.
Nonostante lo spettacolo nel complesso non ci abbia coinvolto emotivamente e il testo abbia una prevalenza eccessiva sulla pochissima musica (ci sono solo due tracce di cui una volutamente araba di Kazem Alsaher e l’altra di Mozart per la danza finale intitolata “Sogno” in luce blu e fumogeno), i due ballerini sono estremamente espressivi e la performance è pervasa da una finezza satirica interessante e per niente scontata.
Info:
Dal 19 al 21 gennaio 2017 al Teatro Di Rifredi, Firenze
Hillel Kogan (Israele)
WE LOVE ARABS
testo e coreografia Hillel Kogan
danzatori Adi Boutrous e Hillel Kogan
musica Kazem Alsaher e W.A.Mozart
consulenti artistici Inbal Yaacobi e Rotem Tashach
distribuzione DdD – Paris
Immagini tratte dalla Pagina FB del teatro di Rifredi