Dal 10 al 15 aprile sul palcoscenico del Campo Teatrale (Milano), il Pompeo di Andrea Pazienza, che la critica ha storicamente interpretato come l'alter ego del suo creatore, si muove barcollante in una scenografia scura, imbandita di pochi oggetti in continua trasformazione. Cangiante è anche il delirio di fantasie del protagonista eroinomane nelle quali appaiono e scompaiono figure molteplici interpretate rispettivamente da Carola Boschetti e Cinzia Brogliato.
Il giovanissimo Davide del Grosso si ispira ad Andrea Pazienza per comporre la sua nuova drammaturgia e dare corpo a uno dei personaggi più singolari e tristi tra quelli creati dal noto fumettista: Pompeo. Un bizzarro immaginario, un insolito susseguirsi di vicende, in cui tre presenze sul palcoscenico assumono toni surreali e brillanti e in questo rimangono fedeli all'arte fumettistica di Pazienza.
La trama si dispiega nelle ultime 27 ore di vita di Pompeo. Siamo a Bologna. La Bologna di Andrea Pazienza, la Bologna dei ribelli anni '70, nella quale le giovani generazioni bramano un'identità propria nel ventre di una società che si sta svecchiando all'indomani del '68. La storia ci racconta che molti di questi giovani cercarono conforto nell'eroina. Pompeo è uno di loro e ha deciso che la sua vita deve trovare una fine.
Lo spettacolo di Davide del Grosso, di cui Claudio Orlandini firma la regia, non mette l'accento sulla critica sociale. Piuttosto, si occupa di offrire uno spaccato di vita privata e con la lente di ingrandimento guarda alla situazione di un giovane artista che ha fatto carriera. Quali sono i risvolti del successo? Pompeo è un disegnatore talentuoso, un docente al liceo artistico, un uomo lasciato dalla sua compagna e con il cuore spezzato, un figlio che vive lontano da casa. Un uomo solo, insomma, o almeno questo sembra volerci dire il drammaturgo. Un uomo che non trova la propria dimensione e a cui l'espressione artistica non basta più.
La condizione esistenziale di Pompeo lo porta a guidare forsennatamente in piena notte alla ricerca di una dose e poi a entrare in un bar strafatto e barcollante; lo riporta a casa, cuffie alle orecchie, ad ascoltare la musica italiana di quegli anni e a cantarla da solo nella sua stanza. Sempre da solo. L'unica compagnia sono le presenze frutto del suo immaginario. Esse sono perlopiù interlocutori scomodi che tentano invano di allontanarlo dal desiderio voluttuoso della droga cercando di convincerlo, in maniera un po' maldestra, che per scampare alla tristezza basta l'amore. Ma in che senso? – viene da chiedersi – E per sfuggire a che cosa esattamente? Il tema della solitudine rimane in superficie, è solo rappresentato attraverso un personaggio molto noto e non viene sviscerato nel profondo.
Inoltre i ritmi comici non sdrammatizzano adeguatamente la prosa, conseguentemente risulta faticoso per il pubblico comprendere il vero tema di questa pièce che, se si rivela promettente nella scrittura, non fa altrettanto nell'impostazione interpretativa. Questa infatti risulta ridondante e didascalica: nella melodrammaticità vocale di Pompeo, nel suo rivolgersi velatamente al pubblico obbligandolo alla riflessione attraverso massime un po' scontate, nella richiesta stremante di essere amato che culmina nel far volare giù dal palcoscenico una pioggia di fogli disegnati.
Il risultato un po'deludente è che noi dalla platea guardiamo passivamente per novanta minuti un tossicodipendente qualsiasi, che si lamenta urlante e spesso non ci fa nemmeno comprendere ciò che dice. E questo è un peccato perché il giovane attore ha delle potenzialità fisiche molto interessanti… giusto per non dimenticarci che il teatro è insieme corpo e parola.
Speriamo che questo Pompeo teatrale possa migliorare e che con il tempo possa regalarci uno sguardo un po' più focalizzato sulla comica drammaticità delle disgrazie umane.