La stagione regolamentare, subito interrotta purtroppo, del Teatro della Limonaia si era aperta sabato 24 ottobre con il debutto di UROBORO, spettacolo firmato da Teatro come Differenza. Un viaggio avvincente per lo spettatore, al contempo profondo e leggero, in grado di coinvolgere il pubblico fisicamente ed emotivamente. Gli attori di Teatro come Differenza ci hanno sorpreso per le qualità espressive di cui hanno dato prova, nonostante le difficoltà nel padroneggiare tecniche recitative articolate. La tristezza nel dover salutare il teatro fino alla prossima data di riapertura stabilita dal DPCM anti-Covid è mitigata dalla coinvolgente esperienza di cui il collettivo fa dono ai convitati e che vogliamo restituire qui come esperienza significativa e profonda che ci auguriamo di ritrovare presto alla fine dell’emergenza epidemiologica. Leggi anche l’intervista alla regista Francesca Sanità
a cura di Serena Solpasso – redazione Gufetto Firenze
Contenuti
Teatro della Limonaia: le misure di sicurezza anti-contagio
C’è fila all’ingresso del Teatro della Limonaia, nonostante gli ospiti che vi possono accedere in contemporanea siano solo venti. È un anno particolare e le file in qualche modo lo ricordano. Ad un metro di distanza gli uni dagli altri, mascherine in volto, igienizzanti per le mani e termometri ad infrarossi. Queste abitudini non si consolidano facilmente. Tornare a teatro e non poterlo vivere come di consueto è molto strano. Un po’ per volta ci si avvicina alla biglietteria e si opta per tornare all’esterno. Il foyer non è un posto affollato di questi tempi. Solo in venti per volta possono accedere allo spazio interno, quando voci registrate bisbigliano caoticamente qualcosa che ricorda il nostro concetto culturale di peccato. L’audio richiama all’interno gli ospiti del teatro, riuniti in cerchio nel foyer e disorientati nell’attesa dell’ingresso in sala. Lo spettacolo ha inizio, ma non è ancora giunto il tempo di entrare in platea.
UROBORO: un ingresso inaspettato nel teatro della Limonaia
Un attore dalla giacca rossa e il berretto bianco ricorda un Pinocchio. Dalla biglietteria richiama su di sé l’attenzione e col fare giocoso segna l’inizio del percorso Uroboro. Un’altra voce sul soppalco soprastante irrompe nel discorso. Il focus si sposta. Gli sguardi si sollevano per intravedere due volti illuminati dal basso: ci raccontano di sé e di noi. Una musica allegra introduce un nuovo personaggio: l’abito da sposa e un collare in pelle nera. L’attore danza nel suo costume, dall’esterno muove verso l’interno del cerchio, facendosi largo tra gli spettatori e destando un senso di irrequietezza per l’inaspettato ingresso. Volteggia e guarda chi verso di lui rivolge lo sguardo, incuriosendo e suggerendo la direzione che lo spettacolo segue. Si fa largo ancora una volta, irrompendo nel cerchio formato dagli ospiti e percorrendo il tragitto che a breve una parte degli spettatori compirà. Il lato destro del teatro e le scale che separano il foyer dalla platea e poi dal palcoscenico: verso lì si dirige continuando la sua danza dall’immagine contraddittoria. Fiero e deciso solleva sui fianchi l’abito bianco, agevolando la marcia con cui supera le scale a volto alto. Da ambo i lati, dunque, gli spettatori sono invitati ad imitarlo. Percorrono i gradini laterali, in due gruppi equamente distribuiti, seguono l’attore dall’abito bianco che prontamente sfugge al loro sguardo per rifugiarsi nel punto più lontano del palcoscenico.
gli attori attendono in fila
Piacevolmente sorpresi, gli spettatori realizzano che il leitmotiv è la disposizione ordinata per lungo. Per una volta non sarà il pubblico ad attendere in fila, ma gli attori sul palcoscenico che ingloba le quinte rendendole spazio scenico. La platea è già occupata, alcuni attori impersonificano studenti impegnati nell’annotazione delle riflessioni del proprio docente: dal bianco crine, uno degli attori sul palcoscenico espone lucidamente la lezione quotidiana, un dialogo razionale sul peccato in forma seminariale. La cattedra non è visibile sul palcoscenico, né i banchi in platea. Lo sguardo dello spettatore muove come fosse una pallina da ping-pong da un lato all’altro del proscenio, inducendo un movimento, al momento di natura meramente fisica. Gli alunni prendono nota, fanno domande, coltivano un acceso dibattito tra loro, richiamando sapientemente su di sé l’attenzione con movimenti contenuti. Dalla mente spigliata, gli alunni sono filosoficamente impegnati nella riflessione sul peccato, ansiosi di ricevere una risposta dai propri colleghi e dal docente – forse curiosi di quella del pubblico. Il dibattito evolve.
lo spostamento dello spettatore
Dal foyer verso la fine delle quinte lo spettatore è incitato a spostarsi, prosegue il suo tragitto in un crescendo di emozioni: dalla leggerezza iniziale verso la riscoperta intima di sentimenti più profondi, passando attraverso la lucida analisi offerta dalla lezione aperta. Dunque, il dibattito cessa. Una donna in proscenio confessa il suo peccato, segnando il passaggio da un clima di distacco al contatto emotivo intimo e profondo. – Si beve per festeggiare, quando si è felici. Si beve per dimenticare quando si è tristi. Ma quando non accade nulla cosa si fa? Si continua a bere affinché qualcosa accada. – L’esigenza di queste confessioni, parafrasate in questa sede, sorge dalla innata necessità umana di relazione, comunicazione e comprensione reciproca. Siamo tutti esseri umani, tutti alla mercé dei nostri peccati, dettati dai nostri atroci moti interiori, tutti alla ricerca di un porto sicuro dove essere accolti nella fragilità remota del nostro animo.
La recitazione degli attori di Teatro come differenza
Ed ecco che le parole di una donna in abito sgargiante risuonano tra le menti del pubblico, per il quale il movimento è l’unica via per non sentire il dolore, per anestetizzarlo. Poco importa che sia deleterio, poiché il vuoto pesa più di qualunque sofferenza. Si riempie questo vuoto, così come l’attrice riempie uno spazio in fondo alle quinte. Due maschere – sono loro ad aver condotto gli ospiti verso gli argini della platea – ancora più in là guidano gli spettatori sul palcoscenico. Lateralmente i due gruppi siedono alle estremità della scena. Al centro una fila verticale che dal proscenio prosegue verso le quinte chiudendosi al termine al cospetto di cinque attori. Rimandano ad una lunga, interminabile fila a T. Il senso di profondità scenograficamente reso accentua gli umori indotti dalle parole degli attori. Spicca il dolore di una signora in proscenio, racconta di una relazione tanto intima, ma in qualche modo comune secondo diverse dinamiche a tutti i presenti. La Relazione, la prima e fondamentale per una donna: quella con sua madre. La voce le trema, facendo vibrare le corde interiori del pubblico. La tecnica non vale a nulla a confronto con la spontaneità, con quella verità che dovrebbe emulare. Non è la stanislavskijana reviviscenza il punto di forza, ma la disinibita connessione al proprio animo disvelato con una naturalezza tale da sconvolgere positivamente chi vi assiste.
il tema, la confessione dei peccati di Uroboro
I racconti rivelano peccati piccoli e grandi di cui tutti noi umani siamo colpevoli. Proprio il senso di colpa induce ad una confessione, al desiderio di redenzione. Eppure, non sarebbe necessario. La responsabilità è ben diversa dalla colpa, ma spesso il distinguo si paga a caro prezzo. Chi è colpevole se le responsabilità son sempre condivise? Chi della colpa schiacciante sente il peso in ogni istante o chi la riversa, spesso involontariamente, sull’altro per liberarsi dalla pena che la consapevolezza del peccato induce?
Gli spettatori sono guidati verso l’ultimo settore: è giunta l’ora della confessione e dell’espiazione dei peccati. Buffo pensare che chi è in grado di giungervi, lo diventa solo dopo un’estrema sofferenza. Ma, infondo, siamo tutti esseri umani senza distinzione alcuna e forse è il pregio di Uroboro chiarirlo, urlando: non siamo alla ricerca di vittime e carnefici; questi ruoli non esistono; ciò che conta è imparare a comunicare, a parlare e ascoltare. In un turbinio frenetico di emozioni che si scontrano, Uroboro è un percorso ciclico e la modalità itinerante dello spettacolo lo ricorda. L’ultimo settore, rappresentato dal fondale delle quinte, è la via d’uscita: non si torna indietro, non è un percorso lineare quello del peccato, nonostante le file create dagli attori possano trarre in inganno.
le soluzioni sceniche di Teatro come differenza
Quattro attori sono le punte di un rettangolo, si muovono e si posizionano difronte agli spettatori: li fissano; li guardano dritto negli occhi, confessando con forza e coraggio il proprio peccato, consapevoli di non esser vittime né carnefici. Consapevoli che il pubblico è specchio della loro condizione: né vittima, né carnefice. Restituito il senso dinamico e la complessità al mondo che viviamo, tanto fisico quanto emotivo, Uroboro si tace, superando il limite della rigidità dei ruoli, della categorizzazione, della differenziazione e del distacco.
La comunità si è resa famiglia per poche ore. Torna, adesso arricchita dal senso di vicinanza che gli attori hanno sapientemente stimolato, alla quotidianità, uscendo per la prima volta in teatro dalla soglia delle quinte. Infatti, la circolarità dello spettacolo è latente ed è rappresentata dal percorso compiuto dagli spettatori, i quali entrano dall’ingresso principale per uscire dal lato opposto del teatro, avendolo percorso per intero.
la modalità itinerante e la Diversità di corpo e voce
La modalità itinerante ha offerto allo spettatore l’esperienza di quattro spazi interni diversi, dominati da diverse figure geometriche: il cerchio iniziale nel foyer esplode in platea con la disposizione a rombo degli attori; il palcoscenico ospita un’interminabile fila che si conclude con un’altra retta composta da quattro attori. La diversità emerge in ogni sua sfumatura. Tutto è diverso e bello nella sua diversità: i corpi, le voci le forme coreograficamente composte; le modalità di racconto intimo e profondo.
UROBORO e la rottura degli schemi scenici
L’evento del Teatro della Limonaia è stato efficace nella rottura degli schemi scenici e nella proposizione di una nuova estetica, dissonante rispetto alla teatralità istituzionale, più forte nella tecnica che talvolta si traduce in appiattimento emotivo. Questo ad esempio non sarà mai possibile per questi attori, poiché le loro storie e la loro essenza sono dissonanti ed emotivamente cariche, a tal punto da rendere impossibile un appiattimento comunicativo ed estetico.
Raccontare Uroboro in poche righe non è possibile, viverlo è una necessità se si intende comprenderlo. La drammaturgia è semplice, la trama futile, ma le presenze sulla scena rompono le barriere, brillano e vibrano, restituendo al teatro il suo ruolo di ponte relazionale nella comunità.
UROBORO
di e con Teatro come Differenza
regia di Paolo Biribò, Francesca Sanità, Elena Turchi
in scena gli attori di Teatro come Differenza; Atto Due – Laboratorionove
residenza artistica Teatro della Limonaia
Teatro della Limonaia, Sesto Fiorentino
sabato 24 ottobre 2020