Dopo il rinvio causa pandemia ha debuttato nell’ambito dell’Estate Fiesolana 2021 al Teatro Romano in prima assoluta, UN’OPERA DA QUATTRO SOLDI, l’omaggio del drammaturgo e regista Gianfranco Pedullà a John Gay e Bertolt Brecht. Prodotto dal Teatro Popolare d’Arte di Lastra a Signa, abbiamo assistito a circa 3 ore di prosa con lo sguardo rivolto al musical mentre il cabaret faceva capolino a tratti, il tutto condito dalle musiche originali di Francesco Giorgi eseguite dal vivo in scena. Una nutrita compagnia di interpreti che ha saputo divertirci smascherando con spirito di disillusione le miserie dei nostri giorni, non così apparentemente diverse da quelle del testo originario.
Tradizione e rinnovamento nel testo di Pedullà
Dal Tamigi al Tevere, dallo Strand ai sobborghi miseri e malfamati di Roma Capitale, la povertà resta una “strana faccenda” e certamente una fonte di lucro. Laddove c’è qualcuno che accoglie l’appello del popolo, vessato magari dal traffico o dalla guerra o financo dai cambiamenti climatici, c’è sempre qualcun altro pronto a farsene amico per approfittarne. Pertanto la miseria diventa un fenomeno da baraccone che veste anche il cantastorie, crepuscolare e dallo sguardo che sa di consapevolezza. Quando poi si dispiega una scena da avanspettacolo fatto di manichini mutilati, appendiabiti stracarichi e appelli all’ascolto del povero a caratteri cubitali, l’atmosfera cambia improvvisamente e veniamo proiettati in un night dove gli attori sono astanti seduti ai tavolini a latere. Con queste premesse prendono il volo le vicissitudini che intrecciano le vite del Capitano Macheath, scaltro faccendiere dedito ad ogni specie di malaffare, e del suocero, suo malgrado, Peachum, padre di Polly, che è finita sprovvedutamente tra le braccia del delinquente latin lover. A questi non possono poi mancare la madre di Polly, Cecil, e il capo della polizia Vito Lockit, colluso con la criminalità e spudoratamente affascinato dalla figura del criminale Macheath, invaghitosi pure di sua figlia Lucy.
Un’opera da quattro soldi: la messa in scena
In un mare di luci rosa il Capitano fa il suo ingresso come un padrino dandy insieme alla sua banda di scagnozzi con cui sembra districarsi agevolmente tra ogni pensabile tipologia di reato, come se ognuna fosse una mostrina da appendere alla giacca rigata insieme alle conquiste amorose arricchite da frequenti visite al bordello cittadino. Il suo fascino non passerà perciò inosservato e la figlia di Peachum, imprenditore della povertà, dedito a travestire attori da mendicanti per impietosire e racimolare denaro, resterà invischiata nella ragnatela sposandolo rocambolescamente in un anonimo fabbricato della periferia romana. Una celebrazione fittizia in cui la redditività del crimine si scontra con lo squallore del contesto perché, in fondo, l’obiettivo è solo fare soldi per poter corrompere il potere. Non c’è ricchezza in tutto questo ma solamente desiderio di una scalata della piramide sociale a scapito dell’umanità altra, quella che ha bisogno di te, miserabile, perché troppo misera.
Affidarsi poi al potere costituito non garantisce giustizia e solo grazie al doppio gioco di un’umile prostituta e alla tenacia di Peachum, vendicativo nei confronti dell’indesiderato genero, il capo della polizia riuscirà ad imprigionare il Capitano, pentendosene pateticamente subito dopo quasi come un innamorato costretto tra l’etica e il sentimento. Sceso oramai dal palcoscenico al livello più basso nello spazio dell’orchestra, Macheath incarcerato non può che attendere l’ora dell’esecuzione e sembra che fino all’ultimo non ci sia una via di scampo per il nostro padrino, ai cui modi un po’ distratti ci siamo quasi affezionati. Solamente la forza del teatro e della finzione drammaturgica può salvarlo e con l’intervento del mendicante cantastorie Macheath è infine graziato. Oggi come ieri, laddove la “gratitudine cede il passo all’interesse”, tutti ne avranno da guadagnare e i poveri continueranno ad inneggiare a Barabba.
LA COMPAGNIA DEL TEATRO POPOLARE D’ARTE E I SUOI EQUILIBRI SUL PALCO
Nel suo adattamento Gianfranco Pedullà ha conservato gli elementi essenziali dell’originale, o meglio degli originali, riportando all’oggi le vicissitudini dei personaggi con precisi riferimenti temporali e geografici che non lasciano spazio all’immaginazione. E anche la forma non è esente da questa contemporaneizzazione laddove il teatro canzone strizza l’occhio al cabaret e al musical pur mancando vere e proprie coreografie di gruppo. Le musiche originali di Francesco Giorgi ed eseguite dal vivo (Marlene Fuochi pianoforte, Dagmar Bathmann violoncello, Leonarda Tiloca tromba, Francesco Giorgi violino) hanno accompagnato piacevolmente la messa in scena intrecciatasi con i musicisti, invasori di campo sul finale dopo essere rimasti in disparte ma ben visibili nello spazio dell’orchestra. Nel complesso abbiamo trovato un gruppo di artisti sul palco ben coordinato, capace di caratterizzare con ironia e con sagacia i personaggi mantenendo i giusti equilibri di peso tra di loro. Pertanto ognuno ha saputo esprimere al meglio le potenzialità che il proprio ruolo poteva offrire e, sebbene il rischio fosse tangibile, nessuno è mai trasceso nella caricatura o nella macchietta se non dove fosse, a nostro parere, necessario o quanto meno non disturbativo. Difficile e forse anche ingiusto segnalare la prestazione solo di alcuni ma non possiamo esimerci dal farlo per Fulvio Cauteruccio, un Macheath diabolicamente ironico e goffamente comico a tratti, quasi consapevole che il suo destino non sarebbe potuto essere la forca, neanche nei momenti finali più drammatici, e per Giulia Weber-Cecil, una mamma molto toscana nei modi sbrigativi che ci ha ricordato il vernacolo quello nobile, espressione di un teatro volgare alto. Da menzionare, infine, anche l’esibizione di Alessandro Baldinotti, un cantastorie che si è fatto mendicante e prostituta con la sensibilità e la sfacciataggine che un testo come questo impone a chi conosce già l’esito finale delle vicende.
AMARA DISILLUSIONE NEL TEATRO ARTIGIANALE DI PEDULLA’ E DELLA SUA OPERA DA QUATTRO SOLDI
Un disperato e amaro senso di disillusione pervade costantemente il testo originale di Pedullà, laddove “sorridere sempre” non è un auspicio di positività nello sguardo al futuro ma solo una via per raggirare i clienti-consumatori vittime del capitalismo borghese ma anche delle forme di potere corrotto che non risparmia nemmeno il clero. Indossano infatti abiti similmente talari i nuovi potenziali clienti degli affari loschi di Macheath e con i loro toni melliflui non nascondono di inviare una critica ad un sordido sistema di solidarietà destinato a fomentare una sostanziale guerra tra poveri. Nemmeno sul finale, quando ci si illude che il criminale possa ricevere la sua condanna, si può davvero esultare, consapevoli che non è con il sacrificio del capro espiatorio che la giustizia potrà dirsi davvero trionfante. Evviva il potere della drammaturgia, allora, che, dopo averci fatto affezionare a lui, è capace di salvarlo con un colpo di coda fulminante e decisamente più contemporaneo di un atto di grazia. Non è la collusione criminale del potere a fargli scampare la forca ma una realtà che ormai conserva i propri equilibri su speculazione e spregiudicatezza, ingredienti divenuti irrinunciabili, ieri come oggi.
In una forma di teatro artigianale, fatto ancora apprezzabilmente di cambi di scena in diretta conditi da qualche secondo di buio e maestranze brulicanti sul palco, Pedullà ci ha estensivamente (ci permettiamo di dire, forse anche troppo, con oltre 3 ore di spettacolo) restituito la capacità di ridere, anche se amaramente, di un sistema che è frutto di delusione e rabbia ma che nella sua umanità non potrebbe essere altrimenti. I corsi e ricorsi storici ce lo insegnano e quindi non ci resta altro che imparare a guardarlo in faccia, questo presente, con un sorriso fatto non di mera accettazione ma di consapevolezza. Magari da questo potremmo davvero ripartire.
UN’OPERA DA QUATTRO SOLDI
un omaggio a John Gay e Bertolt Brecht
drammaturgia originale e regia Gianfranco Pedullà
musiche originali Francesco Giorgi
con Fulvio Cauteruccio, Marco Natalucci, Alessandro Baldinotti, Giulia Weber, Roberto Caccavo, Gabriele Bonafoni, Eleonora La Pegna, Fausto Berti, Matteo Zoppi, Anita Donzellotti, Vincenzo Infantino, Maciré Sylla
musica dal vivo Marlene Fuochi pianoforte, Dagmar Bathmann violoncello, Leonarda Tiloca tromba, Francesco Giorgi violino e direzione musicale
collaborazione drammaturgica Gabriele Bonafoni
disegno luci Gianni Pollini
scene Claudio Pini
costumi Alessandrajane
movimenti scenici Isabella Giustina
foto di scena Alessandro Botticelli
Teatro Romano di Fiesole
venerdì 9 luglio 2021