DI NUOVO IN SCENA UNO, NESSUNO E CENTOMILA @ Teatro Quirino: cocci di esistenza allo specchio

Torna il scena al Teatro Quirino dal 10 al 15 gennaio Uno, Nessuno e Centomila. Aveva già debuttato l’anno scorso Il 25 gennaio (il Romanzo scritto nel ’25, di Luigi Pirandello) con Pippo Pattavina. Spettacolo da vedere, vi spieghiamo perchè e vi raccontiamo chi è il Moscarda di Pirandello, qui interpretato da Pattavina.

Il Teatro Quirino, custode della storia del teatro

Il Teatro Quirino custodisce la storia di tanto Teatro passato su quelle tavole attempate. Teatro Quirino – Vittorio Gassman a dirla tutta. Come un tempio di culto si dedica quel luogo a chi di Teatro ne ha fatto tanto e di qualità quasi come un santo laico… Proprio lì a poco dalla Galleria Alberto Sordi, grande amico di Vittorio. Ci fa enormemente piacere che oggi luoghi, Teatri, vie: portino il nome di chi ha dato la “T” maiuscola a questa antica e mai vecchia arte.

Arrivo in Teatro con qualche minuto di ritardo per colpa e grazie alla cucina pachidermica di un vicino ristorante che vive lento il rito di chi si mette seduto al tavolo e desidera rilassarsi. Ero intento a leggere la sinossi che prima avevo ritirato al botteghino: Il cameriere avrà creduto che avessi solo voglia di assopire la mia giornata convulsa di impegni. Quei pochi minuti di imbarazzante ritardo mi hanno però permesso eccezionalmente di entrare in Teatro come un ladro a rubare quello che tutti erano già nell’atto del fare. Il palco si era già dipanato di quel mistero abbondante trattenuto dal sipario rosso. La scena già denunciata. Il pubblico già zitto nel rito silenzioso dell’ascolto. L’attore aveva già iniziato la sua intima confessione e portate alla platea le parole dell’autore agrigentino.

La pièce è una denuncia espressa alla società che tende a inghiottire. Inglobare. Annullare tutto ciò che ambisce allo status di individuo. A Moscarda sembra di vivere dentro una tempesta inquieta. É un mare grande dove nuota affannosamente a grandi bracciate. Pirandello non risparmia la chiesa, breve e bigotta, che chiede al Moscarda di redimersi, tornare sui propri passi. E ci viene in mente il Prometo di Eschilo che invita i divini personaggi a fare lo stesso. Tornare indietro. Percorrere le strade già selciate.

UNO NESSUNO E CENTOMILA: al Teatro Quirino, la messinscena

É un processo. La pièce si apre e chiude con un procedimento all’essere umano alienato da sè stesso che sembra barca misera alla deriva. La scena è stilizzata e si apre alla storia e pubblico in un nitido cavallo che rimanda alla fanciullezza. A quel tempo della vita, quando le parole di ogni padre si tatuano nel nastro indelebile della mente dei figli. Padre amorevole per Moscarda e banchiere. Usuraio invece per chi lo vede da fuori e non può o non vuole entrare nel caldo intimo degli affetti. In quel tepore casalingo dove i soldi hanno un metallo e peso diverso.

Le scene di Salvo Manciagli sono pulite di un bianco candido. Sembrano una tavolozza abbacinante che riflette decisa nel buio pesto della sala. Poi su quella tavolozza vergine di Teatro si scagliano morbide le ambientazioni della storia che scorre fluida in bocca agli attori. Si vedrà una vecchia banconota in lire, e poi antichi palazzi fieri di storia, in altre scene ci sono colori decisi che introducono un cambio di scena. E poi ci sono altri ambienti che entrano nel Romanzo, grazie a un letto oppure a una scrivania d’ufficio. E altro. Tutto denunciato e davanti gli occhi complici del pubblico, che sa già che qualcosa sta per accadere e cambiare. Non c’è quella pudica regola che le scene vanno trasformate all’insaputa del pubblico e dietro il sipario o le quinte. Altre volte sì. C’è una quinta che si pare e scorre come una bocca sulla storia.

Le luci sono magnifiche. Oniriche. Riverberano le battute del racconto e ne facilitano la suggestione. Sembrano un accento acuto o grave a seconda del momento che la platea si trova innanzi a sé. I costumi sono ben pensati anche perché ogni attore recita più ruoli: dunque il cambiamento è necessario. Il camuffamento d’attore deve avere una doppia funzione: vestire il personaggio e rendere l’attore molto diverso nella scena che verrà dopo perché dovrà avere un altro nome, postura e persino fittizia fisicità. La regia di Antonello Capodici è efficace nell’intento tanto che qualcuno, indugiando all’uscita nel foyer, si chiede sinceramente se alcuni attori fossero gli stessi o magari fosse stata solo un’impressione. Le musiche di Mario Incudine evocano certi momenti e a volte ci ricordano che la scena è cambiata o sta cambiando.

UNO NESSUNO E CENTOMILA: recitazione convincente, Pattavina bravo, mai sopra le righe

La recitazione di tutti gli attori è piena. Ci convince e diverte. Non si ride come si vuole nella tradizione umoristica di certi autori e specie nell’autore del Saggio “L’Umorismo” (1908 – Pirandello) eppure sono molti i sorrisi che la pièce regala alla sala che risponde puntuale all’invito. Ci pare davvero di assistere alla Somma della maturità dell’autore e dell’attore. Pirandello e Pattavina. Non avevo mai visto uno spettacolo dell’attore catanese.

Lo trovo bravo: è come (almeno per me in questa sensazione ma di cui non ho prove) se avesse raggiunto la sua massima consapevolezza artistica o magari è sempre stato bravo anche da giovane. Chissà? Mi piace solo pensare che il tempo migliori le cose come accade a certi vini di annata. Pattavina non è mai sopra le righe. Ha quella buona espressività che Pirandello scovava nel volto dei suoi attori migliori di compagnia come un docente di Fisiognomica ancora prima che come autore di testi.

Ci piace Marianella Bargilli. La sua bellezza è come calamita: ci distrae e attrae quando interpreta la conturbante moglie di Gengé. E poi, prima e dopo, gli altri personaggi.

UNO NESSUNO CENTOMILA: chi è Moscarda

Moscarda, preso da un insolito narcisismo, indugia davanti allo specchio e si accorge che il naso gli pende da una parte e che le sue ciglia sono simili a un curioso accento grave. La moglie lo conferma senza riserve e vi aggiunge generosamente altri difetti sparsi per il corpo del povero Vitangelo: qui e là, a macchia di leopardo. Sparsi come macchie. Si innesca così la miccia del personaggio che inizia a chiedersi: chi è?, com’è davvero?, come si vede lui? e come lo vedono gli altri soprattutto. É un tormento nuovo. Sorprendente. E scova, col dispetto di un adolescente, difetti simili o peggiori in passanti e conoscenti. É il suo sciocco e dunque veniale risarcimento. Ma è solo l’inizio del dramma personale. Qualcosa non collima. Emerge da lì in poi una doppiezza di sé stesso che non può essere trascurata se paragonata a quella pungente urgenza di vivere. Nasce d’improvviso la smania di restare con sé e poi ancora quell’altro sé.

Il Dramma interiore di Moscarda

Allora Moscarda si pone diritto e immutabile davanti allo specchio di prima (ma adesso da solo in casa) perché gli riveli crudelmente la sua vera identità ormai annebbiata da quell’incidente domestico. Ma si frantuma lo specchio nell’impatto di domande e quando l’uomo si accorge che dentro gli convive una moltitudine di Moscarda. Ed ognuno sembra estraneo all’altro. Ma tutti stretti in quel breve corpo d’uomo che non sapeva di contenere tanta società. Tanta moltitudine repressa sotto l’epidermide.

Moscarda, con la voce robusta di Pattavina, inizia un viaggio a ritroso per capire quando quella ampiezza di caratteri è entrata a fare parte congiunta di quella sua unica esistenza. Interpella il padre nel ricordo e in quello che gli rimane vivo negli appunti sparsi della mente. E discerne da subito, in quella nuova consapevolezza, che c’è un Padre com’è per lui e un Padre fuori. Di come gli altri lo vedono con i loro occhi.

Pirandello e Moscarda: il delirio del tempo

C’è un potere che Pirandello conferisce volontariamente al destino, al tempo, e non manca di mettere quell’idea chiara e universale in bocca al suo fervido personaggio conquistato ormai dal benefico delirio. Il Tempo… Nascere “ora e non “dopo”. Il Tempo non è padrone di tutto, ma certamente ha un ruolo da protagonista come nelle migliori piéce teatrali. Non è rilegato in fondo. Non è marginale. Moscarda è così perché è figlio del padre e di quel suo tempo personale. Intimo come l’esperienza. Di certi fatti accaduti che lo hanno forgiato come zoccoli di cavallo.

Moscarda scava ancora nel suo intimo e in quello di chi gli sta vicino a varia distanza. Distanze tuttavia brevi. Le persone di fiducia del padre banchiere, che si muovono indisturbate e sono in cerca non dei bisogni del Moscarda quanto della sua legalissima firma necessaria perché padrone della Banca. La moglie, anche lei vicina di vita, che gli incolla un nome che non è il suo: Gengé.

Moscarda e la follia in Uno Nessuno e Centomila

«E chi è davvero Gengé?» Se lo chiede da sempre Moscarda. É l’ennesima conferma che coesistono tante realtà: una e centomila. E poi nessuna. La Follia si acuisce e il nostro personaggio arriva incredibilmente ad essere geloso di quell’estraneo che ha le sue stesse mani e tocca la moglie. Sono mani avide di carne che penzolano su di un corpo che ha un altro nome. Nome buffo. Magari gli cresce quella gelosia assurda perché forse pensa che sua moglie desideri essere amata da un uomo che non è lui. Da quell’altro. Diverso e quindi è come se lei stessa amasse un altro. Ama Gengé. Qual è la verita e poi cos’è la vera verità se non una realtà più condivisa delle altre. É un dedalo intricato di molte domande e rade risposte e poi nuovi dubbi diversamente intensi e pungolanti.

Pirandello e la Maniglia

«La legge infame della maniglia…». Una volta che, misera, essa si lega all’uomo non si stacca più e tutti l’acchiappano lesti per definire un uomo, una donna. Insomma, chi è di turno al processo. Di chi passa per la gogna. La maniglia è il nuovo paragone che Pirandello usa nel Romanzo per chiarire il suo pensiero più connaturato: le Maschere. Nella viva dialettica dell’autore si presenta molte volte l’idea che è la maschera a rendere riconoscibile ognuno di chi deve muoversi in questo mondo.

La maschera è il marchio buono o cattivo. Generoso o infame. É quel segno che gli altri attaccano e tatuano sulla pelle a seguito di un solo, unico evento dal quale non si può più uscire. Fuggire. Pattavina per bocca di Moscarda, accorato, ci ricorda che ogni essere è somma di infiniti gesti, idee: eppure un solo fatto vale a guadagnare il marchio.

Pirandello e l’irrinunciabile Pazzia

C’è quella irrinunciabile Pazzia che permea la poetica pirandelliana: da Ciampa, all’Uomo dal fiore in bocca, fino a Moscarda. Quella Pazzia assorbita dalla moglie e che l’autore sfoga e descrive indistintamente nelle sue opere: Novelle, Romanzi e Commedie. La Pazzia come conseguenza e soluzione. La pazzia come il tutto. Quel delirio fitto di azioni, nei personaggi di altri scritti e qui, ha il potere inebriante della droga capace di sconvolgere la normalità o di quello che si crede tale.

Quel terremoto sconquassa gli equilibri che sino a lì si sono poggiati sulla testa dei tanti. Qualche idea spuria all’inizio assurge a verità non più contestabile se non dai pazzi (appunto). Moscarda vuole scrollarsi quell’etichetta di usurario che era del padre e che potrebbe appartenergli senza saperlo. Vuole far sapere che è un convinto benefattore. Dona, eppure non è creduto, nemmeno dai destinatari di quel gesto filantropico o comunque di quel gesto del dare senza corrispettivo oneroso. Dare a basta solo per frantumare le maschere incollate sul viso che aderenti tolgono aria al povero Moscarda sino a macerargli i nervi.

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