Le feste di Natale portano con sé tante occasioni di teatro-ragazzi, a volte preziose perle di narrazione immaginifica non solo rivolte ai bambini, anzi spesso espressione di un teatro di alta qualità capace di parlare a tutti. Accade a Il Lavoratorio, piccolo teatro e luogo d’arte, che ha portato a Firenze, dopo oltre mille repliche, UNA TAZZA DI MARE IN TEMPESTA di e con Roberto Abbiati e Johannes Schlosser.
A cura di Chiara Guarducci e Alice Capozza
Una riduzione magica di Moby Dick di Melville, precisa e preziosa di dettagli, che si accende di suoni e parole, in un raffinato continuum di apparizioni, e le apparizioni passano dalle fessure sulle pareti, e prendono corpo in oggetti, piccole immensità che creano lo stupore e lo sgomento del viaggio in cui siamo immersi.
Siamo dentro una casetta di legno su dei piccoli sgabelli come fossimo in un rifugio segreto o in una stiva di nave, nel ventre di una baleniera. Siamo felici di trovarci lì, in attesa di sorprese. E dalla dispensa, da ogni fessura, quadrato di finestra, sbuca il suo volto parlante di sguardi, e un passaggio della storia si anima, attraverso gli oggetti che l’attore muove e che realizzano le azioni e il procedere narrativo.
Ci chiede di restare in silenzio Abbiati, perché noi spettatori non sappiamo “niente di navi baleniere, di mare, di caccia, di vento, di tempeste”, veniamo dalla pianura. Ci serve il silenzio per avere la capacità di ascoltare davvero, sentire, capire, col cuore aperto allo stupore. Ci invita nel suo viaggio per girare il mondo e “conoscere noi stessi”, in compagnia del suono del digeridù di Johannes Schlosser, che dall’esterno suggerisce il rumore del mare, del vento, il battere del legno duro sulle onde.
“Ogni volta che nell’anima scende come un novembre umido e piovigginoso, ogni volta che il malumore si fa tanto forte in me…allora dico che è tempo di mettermi in mare al più presto”. Restiamo affascinati dalla voce avvolgente di Abbiati, da quel volto scavato d’altri tempi, che si affaccia da ogni pertugio. Siamo trafitti dal suo sguardo penetrante e indagatore. I bambini guardano a bocca aperta ogni centimetro della nave in cui siamo chiusi, e noi adulti restiamo ancora di più attoniti per l’apparire e sparire di immagini, riferimenti, suggestioni, in attimi di presenza e assenza.
“Amo andar per mare, per uno come me, è l’equivalente di una pistola e di una pallottola”. È il canto di solitudine di Ismael, orfano di mare, è la sua stessa malinconia a fare le onde e il fondale e più che i momenti culminanti – la tempesta, l’assalto della caccia, l’inabissamento – ci solca l’attesa, il vagare nella profondità insondabile di un’anima a mare aperto, in una perenne ricerca di sé e di senso.
Tutto è reso da piccoli oggetti, da brevi e delicati accenni all’atmosfera del capolavoro di Melville. Achab è una gamba da tavola e un piede di legno, che lascia le orme del suo unico pensiero insonne. La nave passa tra noi più volte. È un veliero di vetro blu sopra una pipa, sono le grucce con sopra stralci di stoffa. La balena è in fil di ferro. Fantasma la nave, fantasma la balena bianca.
“Il mondo è una traversata senza viaggio di ritorno”. È nella minuta dinamica che sentiamo l’immensità dell’impresa, avvertiamo sulla pelle la densità dei significati di un testo, sviscerato, studiato per anni, per concentrarlo in una poesia di pochi minuti. Pura essenza.
La stessa passione ha dato vita anche ad un libro, Moby Dick o la Balena edito da Keller: centotrentotto tavole illustrate in bianco e nero, una per capitolo, senza nessuna parola. Pochi tratti, ruvidi, appuntiti che ci ricordano Egon Schiele. Abbiati scava nella sostanza dei personaggi, delle vicende di Moby Dick, nel bianco mostruoso della balena, nell’immensità dell’acqua trasparente, nell’oscurità degli elementi, nella bellezza e nel trascendente.
Una sensazione di vuoto, di nulla e morte ci avvolge senza che ce ne accorgiamo: “Ismaele è caduto in mare sostenuto da una bara”. Fascino e terrore. Abisso. Vortice. Irrompe nella cabina l’attore, bagnato dagli schizzi d’acqua che arrivano a noi, muove la bocca e i suoi baffi pronunciando le parole come un mulinello della tempesta, ondeggia sulle gambe per tenersi in equilibrio. Ed ecco che la baleniera in cui siamo stivati sembra barcollare nell’oceano, fino a farci sentire il mal di mare. “Non c’è altro da fare che aspettare che la tempesta si sfoghi”.
Vien da pensare a La Tempesta di Shakespeare, dove l’autore, più che in ogni altra sua opera, svela i suoi ‘trucchi’ e la nostra evanescenza; ci consegna che ‘siamo fatti della stessa materia dei sogni’, e che la vanità è l’unica nostra meraviglia. E questo spettacolo è fatto di meraviglia.
Difficile definire ciò a cui abbiamo assistito una performance, ed errato sarebbe parlar di scenografia o allestimento quando tutto ciò che entra nella cabina-scena è lo spettacolo stesso. Spettacolo che comprende anche noi, avvolgendoci proprio fisicamente. “Ma se usciamo qui fuori adesso c’è il mare?” la domanda di un bambino scritta sul dorso esterno della scena ci pare racchiuda tutta l’illusione di questo spettacolo.
Il Lavoratorio è uno spazio culturale che ha un’affinità elettiva importante con questo lavoro d’arte-artigianato, sia per le origini storiche di questo luogo, un’azienda di creazione manuale di “borse per signora, cartelle da scuola, da legali e affini”, che per la cura con cui Andrea Macaluso mette su piccole rassegne di grande qualità, prediligendo opere immaginifiche che aprono all’intimità di un volo condiviso.
UNA TAZZA DI MARE IN TEMPESTA
liberamente tratto da Moby Dick di Herman Melville
di Roberto Abbiati
con Roberto Abbiati
in compagnia di Johannes Schlosser
Musiche e registrazioni a cura di Fabio Besana
scenografie costruite nei laboratori di scenotecnica di Armunia
in coproduzione con Armunia Festival Costa degli Etruschi
Il Lavoratorio, Firenze
27 dicembre 2019