UN AUTUNNO DI FUOCO @ Teatro Ghione, un rito di passaggio

“Un autunno di fuoco” di Eric Goble in scena al teatro Ghione, regala al pubblico un’esperienza delicata e profonda in grado di toccare vari aspetti della vita di uomo e del suo ancestrale rapporto con la madre. In scena Milena Vukotik e Maximilian Nisi 
"…Non è semplice comprendere la vecchiaia e imparare ad accettare un tempo che deve necessariamente scorrere più lentamente e ardere in modo diverso" . 

Lo spazio scenico si presenta carico di tutti i colori autunnali tipici della stagione di mezzo che con le loro sfumature generano un’atmosfera raccolta e accogliente tipica di una casa vissuta e abbandonata. Le sfumature del rosso, del giallo, del verde e del marrone si concentrano come una fiamma al centro del salone.

L’albero posto nel mezzo della scena, si innalza nell’ambiente e viene incastonato da una finestra di simil-plexiglass circolare, circondata a sua volta dai muri della casa ormai disadorni e segnati da diverse ombre di quadri, oramai non più esibiti alle pareti.

 

Ogni oggetto e ogni poltrona simboleggiano una zona della mente: ritroviamo infatti la piccola bergère della madre di Chris dotata di un comodo poggia piedi e una lampada da terra; un angolo riservato, dove Alessandra (interpretata da Milena Vukotik) ama riposarsi e riflettere sulla sua vita. La donna artista è caratterizzata da un costante stato di “guerra” tanto che la vediamo circondata da una serie di bottiglie colme fino all’orlo di liquido di sviluppo: una vera e propria bomba se a contatto con il fuoco. Il suo scopo è di trascorrere la vecchiaia in quella casa, piena di ricordi del marito e dei suoi tre figli. Ma il portone di entrata è sbarrato da una serie di oggetti accatastati l’uno sull’altro, i quali ricordano tanto le costruzioni create dai bambini nel corso di un pericoloso assalto alle mura di cinta di un castello immaginario.

Improvvisamente notiamo un uomo (interpretato da Maximilian Nisi) spuntare al centro della scena, appeso all’albero, che tenta furiosamente di farsi aprire dalla madre. Con non poca fatica e quasi inconsciamente, riesce ad aprire il primo piccolo pertugio nella mente e nel cuore di lei.

Nel corso della rappresentazione assistiamo ad un continuo battibecco tra i due, i quali in realtà sono l’uno lo specchio dell’altro.
In un primo momento il dialogo tra madre e figlio è figurativamente separato; uno da un capo del palco e l’altra all’opposto, appollaiata sulla sua comoda poltrona.

Nel corso del tempo della rappresentazione, notiamo uno scambio, non solo verbale ma anche fisico. Entrambi sono emotivamente legati nonostante la distanza ventennale del figlio da casa. I posti si invertono: Chris al posto della madre e Alessandra al posto del figlio. Un gioco continuo d’identità e di scambi, appare fondamentale all’interno della rappresentazione. Ed è proprio qui che il pubblico coglie il focus dell’intero spettacolo: non è facile comprendere la vecchiaia e imparare ad accettare un tempo che deve necessariamente scorrere più lentamente e ardere in modo diverso. Alessandra racconta al figlio il giorno in cui portò lui e i suoi fratelli al Guggenheim pregandolo di ricordarla come quella giovane ragazza che a mille all’ora si dava da fare per sé stessa e per la sua famiglia e che con la stessa intensità ed energia, insegnava la bellezza e il senso profondo della vita ai suoi tre figli. Ogniqualvolta che viene rievocato un ricordo le luci, dapprima fisse sulla scena, cominciano gradualmente a ruotare trasversalmente sul pubblico; come se grazie a quel ricordo in particolare, fossimo anche noi i primi ad interrogarci sulla vicenda e quindi ad entrare in empatia con essa.

Lo spostamento di luce comporta una perdita totale del muro che spesso il proscenio è in grado di creare. In questo caso, qualsiasi tipo di sentimento o di ricordo viene condiviso, sbriciolando in mille pezzi, grazie ad una profonda catarsi di compassione, il muro che separa l’attore/messaggio dal suo pubblico.

Verso la fine dello spettacolo, non sarà più importante lo scopo primario della visita del figlio alla madre (ossia di dissuaderla dal far esplodere la casa in aria) piuttosto, il loro incontro, diventa un pretesto per stare finalmente insieme e ritrovarsi. Scoprono di essere simili e complici nello stesso istante. Il dialogo viene spesso inframezzato da continui sprazzi di lucidità della madre alternati a brevissimi momenti di buio: tipici sintomi dell’Alzheimer. In quegli istanti ci si rende conto che bisogna ricominciare tutto da capo senza impaurire la donna che fino a pochi istanti prima sembrava essere perfettamente conscia delle sue parole e azioni.

Il colore in scena è un grande stimolo sensoriale a partire dall’albero centrale e per finire sulla splendida mantella verde brillante della madre, che indossa quando decide finalmente di prendere coraggio insieme al figlio e di portarlo fuori dalla porta ormai non più sbarrata. Il coraggio misto ad un sano timore prevale, e la protagonista è pronta ad affrontare l’ignoto con la consapevolezza di non essere sola e in qualche modo ancora responsabile dell’esempio che ancora una volta le è richiesto di dimostrare: come madre e come donna, per sé stessa e per gli altri.

Ogni frase e gesto da parte degli attori appare talmente verosimile da far emozionare e commuovere. La spontaneità e la sincerità del movimento vengono a suffragio di una drammaturgia davvero unica e delicata nel suo genere.

La necessità di riportare in scena un argomento tanto antico quanto attuale come le quattro età dell’uomo, non è mai stato così puntuale e dolce all’interno di una rappresentazione. Il tessuto sonoro e le voci dei due protagonisti non potrebbero essere meglio assortite.

Visto il 16/11/2018

INFO:

Teatro Ghione, Via delle Fornaci 37, Roma

Di Eric Coble

Regia Marcello Cotugno

Interpreti: Milena Vukotic e Maximilian Nisi

Traduzione Marco Casazza

Aiuto regia Martina Gargiulo

Scenografia Luigi Ferrigno

Costumi Andrea Stanisci

Disegno luci Bruno Guastini

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