TUTT'INTERA@Teatro India: chi era Vivian Maier?

Chi ci dà il diritto di ricostruire post mortem la figura di un'artista che ha deciso in vita di non condividere né il proprio lavoro né la propria esistenza con altri? Come potrebbe un ritratto a posteriori, basato solo sulla produzione artistica, avvicinarsi alla verità relativa all’essenza di un carattere, di una personalità? Quello della prepotenza di un’eccessiva propensione al biografismo è solo uno degli spunti di riflessione che lo spettacolo messo in scena dal duo Bartolini-Baronio in questi giorni dà allo spettatore.

Vivian Maier, con tutto il carico di mistero che la contraddistingue, è un personaggio altamente teatrale, ma lo spettacolo indaga piuttosto la correttezza del disegnare caratteri definitivi per una personalità tanto fluttuante ed evanescente. Governante e fotografa in segreto, fotografa solo per se stessa ed accumulatrice compulsiva di immagini alle quali non vuole mettere a partecipazione altri da sé, Vivian Dorothy Maier “si diluisce tra la folla”, rivelando forse come unico carattere certo della propria personalità il desiderio di confondersi, di non lasciarsi avvicinare, afferrare e definire. Ma se si può scegliere di condurre un’esistenza che tale desiderio rispetti, non è altrettanto facile resistere alla curiosità lasciando centocinquantamila negativi di scatti. Quell’occhio che tanto ha fermato, “ladro ed assassino” tra le strade di New York e Chicago, si tenta di inquadrarlo a sua volta.

La reticenza ad esporsi, a render pubbliche le proprie foto, raggiunge, nel caso dell’artista in questione, livelli estremi. La sua è una vita in segreto, una seconda vita celata dietro quella ufficiale della governante. Ciò che colpisce molto però, oltre alla riservatezza su se stessa, è la modalità di lavoro della fotografa. Scatti che si affastellano metodicamente in enorme quantità, una pellicola al giorno tutti i giorni per trentacinque anni, senza il bisogno di esser rivisti e mostrati. Un modo di fare ancor più assurdo se paragonato al comportamento attuale, che vede la condivisione istantanea delle foto come mezzo di costruzione delle identità. Il senso dello scatto è nel rapimento di immagini, alle quali si partecipa per quel solo attimo. E proprio il mistero che un simile atteggiamento genera rende più pressante la spinta a definire la vita di Vivian, a cercare il fallo che tanta bizzarria genera.

La regia dei due interpreti propone uno spettacolo che vuole essere un’indagine in corso, una ricerca aperta. La scena è quasi spoglia. Solo la presenza impattante dei due attori, una sedia, un’asta con un microfono e un grande carrello con vari strumenti musicali poco usuali. Il dialogo è elemento cardine. Dialogo tra i due, nel mettere in campo le intenzioni della ricerca, dialogo con le foto della donna, tramite l’elencazione travolgente delle loro didascalie, dialogo con il pubblico, costante riferimento al quale si chiede in fondo il senso di quanto si sta facendo e dialogo infine con la fotografa stessa, l’unica capace di sigillare lo spettacolo con la propria verità. La musica accompagna le parole, ed è il ritmo di percussioni elettroniche, di una chitarra suonata anche con l’archetto, di altri strumenti, oltre che di alcune canzoni che assecondano le emozioni evocate.

L’interpretazione della Bartolini è carica di passione, coinvolgente. Nella parte conclusiva dello spettacolo i ruoli tra le due donne, fotografa e attrice, si invertono e ad essere indagata, schiacciata in un interrogatorio tanto pressante quanto difficile è lei, Tamara Bartolini. Le si chiede, in una fitta conversazione che è in realtà un suo grandioso monologo, una risposta secca, fatta di poche parole, ma che siano autentiche, di propria sincera autodefinizione. Parole impossibili, così come impossibile è probabilmente la definizione di qualsiasi carattere, tanto più di chi ha voluto nascondersi.

Mentre si compone malamente l’immagine di una città americana, proiettata sul muro da una foto che si sta sviluppando in una bacinella d’acqua, la risposta alla ricerca dello spettacolo prende forma. È nel perdersi tra la folla che l’essenza di ognuno si manifesta, impossibile da definire, forse solo istantaneamente percepita dallo scatto di una foto, alla quale non segue sviluppo e seguito alcuno, perché ogni conseguente tentativo di recupero altro non sarebbe che una falsificazione. 

 

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