Nell’ambito dei festeggiamenti per il Capodanno cinese in Italia, che cadrà il prossimo 5 febbraio e darà inizio all’anno del maiale, sbarca direttamente da Pechino a Prato (dopo la prima italiana a Bolzano) TURANDOT, la nuova trasposizione in lingua cinese (con sovratitoli in italiano) dell’antica favola orientale, per la regia e le scene di Marco Plini. I colori, le melodie, le acrobazie dell’antica tradizione cinese hanno invaso il palco del Teatro Metastasio in un progetto di integrazione con l’altrettanta plurisecolare capacità narrativa della drammaturgia italiana, particolarmente significativo in una città che presenta una delle comunità cinesi più popolose del paese. Protagonisti sul palcoscenico gli attori dell’Opera di Pechino, insieme ad un gruppo di musicisti di entrambe le nazioni.
Pur convinti che nel bagaglio culturale di molti degli spettatori Turandot riporti la mente alle note pucciniane del Nessun dorma, la tradizione della fiaba della glaciale principessa cinese affonda le sue radici nell’Asia caucasica dove compare in letteratura per la prima volta circa 1000 anni fa. E’ solo nei primi del Settecento che l’orientalista francese Francois Petis de la Croix sdogana la leggenda in Europa e pochi anni dopo l’italiano Carlo Gozzi ne trarrà un testo teatrale in cui le atmosfere orientali vengono piegate ai caratteri tipici della commedia dell’arte per adattarle all’accomodante pubblico veneziano. Solo dopo un fugace passaggio nella Germania di Schiller il mito orientale sarà infine letteralmente immortalato nell’opera lirica debuttando al Teatro alla Scala nel 1926 con la direzione di Arturo Toscanini e la partitura completata postuma da Franco Alfano.
Lo spettacolo cui abbiamo assistito rappresenta perciò un nuovo capitolo di questa lunga tradizione; un capitolo in cui il regista, come da lui dichiarato nelle note di regia, ha tentato di restituire il carattere più prettamente fiabesco ed onirico della storia, quello fatto delle iridescenze e del fascino misterioso di una ricca corte orientale dal quale si lascia incantare il principe Calaf abbagliato dalla bellezza e, soprattutto, dalla irraggiungibilità di Turandot. Ed è con lo stesso spirito che il pubblico è chiamato ad ammirare anche questo nuovo allestimento in cui la razionalità insita nella mente umana vorrebbe convincere Calaf, uno straniero, a desistere dal suo intento per sfuggire all’inevitabile decapitazione in caso di errore di fronte ai metaforici quesiti della principessa. Ognuno dei presenti sarebbe infatti portato a condividere le parole dell’imperatore Wang Ping (Ma Lei): “Non sentirti vittima. Sei venuto tu a cercare la morte”.
Scevri da ogni velleità di convincimento nei confronti del principe, gli spettatori possono quindi lasciarsi accompagnare dalle melodie frutto dell’estro e dell’integrazione tra le tradizioni musicali che i musicisti Luigi Ceccarelli, Alessandro Cipriani e Qiu Xiaobo hanno elaborato nel tentativo di creare un tessuto di suoni capace di avvolgere le scene e di diventare un attore sul palcoscenico esso stesso. Ogni nota infatti scandisce il ritmo dei movimenti e della mimica degli attori, con un ampio uso delle percussioni, soprattutto di tradizione orientale (7 gli strumenti cinesi suonati dal vivo sul palco insieme ad altri 3 strumenti italiani). Allontanandosi sostanzialmente dal fraseggio tipico dell’opera lirica italiana, in cui la melodia esalta sentimenti ed emozioni a loro volta auspicabilmente rafforzati da una buona prova attoriale, questa Turandot mostra la capacità della musica di guidare non solo gli spettatori nei meandri dell’animo umano ma anche gli attori sul palco, come una vera e propria regista.
Gli artisti dell’Opera di Pechino si lasciano abilmente condurre arricchendo le note con le sonorità di una lingua che, nel suo essere tonale, gioca molto su rapidi cambi di ottava e su modalità di marcare le note e gli accenti che risultano inconsueti per un pubblico la cui tradizione musicale è universalmente definita il bel canto. Ciò ha reso alcuni passaggi, soprattutto dei due protagonisti, acusticamente impervi perché costruiti su virtuosismi talvolta difficili da apprezzare e da comprendere al fine del pathos. Consapevoli che questa considerazione sia parzialmente frutto di una profonda diversità tra due culture millenarie che devono ancora imparare a conoscersi, è apparso invece più familiare l’approccio degli attori in termini di movimenti e mimica facciale. Evidente il richiamo alla tradizione della commedia dell’arte italiana, che Marco Plini ha voluto fare strizzando l’occhiolino proprio a quel Carlo Gozzi che quasi tre secoli fa ha traghettato Turandot nel nostro paese. Infatti se Ping, Pong e Pang (interpretati, rispettivamente, da Wang Chao, Nan Zikang, Wei Pengyu) hanno mantenuto in questa trasposizione il loro nome, i loro tratti caratteristici ricordano le maschere di Pantalone e Brighella, che il Gozzi aveva inserito nella sua versione, nonché alcune interpretazioni dell’ancor più celebre Arlecchino. Ecco perciò che le note apparentemente caricaturali diventano funzionali alla messa in scena nell’ottica di un’integrazione che lo stesso console cinese a Firenze Wang Fuguo in apertura di spettacolo auspica insieme al Vicesindaco di Prato Simone Faggi.
D’ispirazione prettamente orientale sono invece alcuni scambi tra i personaggi a passi di danza quasi un combattimento d’arti marziali. Particolarmente mirabile la scena della tortura di Liù, interpretata da Wu Tong, a nostro parere la migliore sul palco. Serva di Timur (Liu Dake), padre di Calaf (Xu Mengke), e segretamente innamorata di quest’ultimo, per la forza di questo amore preferirà trovare la morte invece di rivelare il nome del principe a Turandot (Zhang Jiachun) per consentirle di vincere ancora una volta e allontanare l’ennesimo pretendente. Proprio Liù rappresenta la chiave di svolta dell’intero spettacolo perché sarà il suo esempio che riuscirà finalmente a sciogliere il ghiaccio che isola il cuore della principessa da ormai troppo tempo. È così che Turandot arriverà a capire che il vero nome del suo pretendente non è Calaf, ma Amore. A sottolineare questo momento la rimozione delle imponenti e quasi ingombranti colonne che fino a quel passaggio dello spettacolo scandiscono gli spazi in cui i personaggi si muovono e che rappresentano sia il palazzo del regno di Hua sia la prigione in cui si è sentimentalmente rinchiusa la protagonista.
Un ultimo doveroso riferimento agli altri fondamentali protagonisti sulla scena: i costumi di Jiang Dian che grazie all’estraneità storica del mito ha potuto spaziare nella millenaria tradizione imperiale cinese con l’aggiunta di alcuni accorgimenti più prettamente occidentali. Ne sono risultati panneggi morbidi e caleidoscopici che hanno davvero restituito lo status dei singoli personaggi: dalle maniche d’acqua (shuixiu), che hanno esaltato ogni singolo movimento dei protagonisti diventando talvolta veri e propri ventagli di morbida seta nelle mani di Turandot, fino agli inserti di pelliccia e di piume che hanno accompagnato le brillanti iridescenze declinate prevalentemente sui toni del giallo e dell’azzurro.
Nonostante le diversità, o magari proprio grazie ad esse, questa versione italo-cinese di TURANDOT aiuta ad abbattere quei muri che, innalzati in nome della propaganda e dell’ignoranza, possono cedere solo con la conoscenza. E la forza del mito e della fiaba ancora oggi, come centinaia o migliaia di anni fa, è in grado di fertilizzare quel terreno dell’immaginazione che ci consente di oltrepassare i limiti della mera comprensione linguistica e di tracciare un percorso di redenzione condiviso: Turandot non sfida solamente Calaf a sciogliere i suoi enigmi ma sfida ognuno di noi a trovare le risposte che servono per un mondo che possa dirsi davvero globalizzato.
TURANDOT
drammaturgia Wu Jiang e Wu Yuejia
regia e scene Marco Plini
musiche originali Luigi Ceccarelli, Alessandro Cipriani e Qiu Xiaobo
regia per l’Opera di Pechino Xu Mengke
aiuto regia Thea Dellavalle
costumi Jiang Dian
luci Tommaso Checcucci
video Orlando Bolognesi
acconciature e trucco Zheng Weiling
con gli attori della Compagnia Nazionale dell’Opera di Pechino: Xu Mengke, Zhang Jiachun, Liu Dake, Wu Tong, Ma Lei, Wang Chao, Nan Zikang, Wei Pengyu
musicisti: Vincenzo Core, Zhang Fuqi, Li Lijin, Meng Lingshen, Niu Lulu, Laura Mancini, Giacomo Piermatti, Cao Rongping, Chen Shumin, Wang Xi
produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione, Teatro Metastasio di Prato e China National Peking Opera Company
con il patrocinio dell’ Ambasciata della Repubblica Popolare Cinese in Italia nell’ambito dei festeggiamenti del Capodanno Cinese in Italia
Teatro Metastasio
17 gennaio 2019