È andato in scena fino al 9 aprile TRUMAN CAPOTE, questa cosa chiamata amore, lo spettacolo che fa luce su una delle più viziose, egocentriche e raffinate vite di uno dei più grandi scrittori americani del ‘900. In memoria della ricorrenza dei 50 anni decorsi dalla prima pubblicazione del romanzo “A sangue freddo” dello scrittore, lo spettacolo di Massimo Sgorbani, diretto da Massimo Emanuele Gamba con Gianluca Ferrato, viene ambientato nella neutralità della sala del Teatro Vascello a Roma.
L’intero spettacolo si svolge in uno spazio onirico che ricorda tanto un luogo immaginario, un ipotetico paradiso o limbo nel quale il protagonista, Truman Capote, sembra essere intrappolato. Si apre il sipario con una musica che tutti conosciamo ossia “Moon River”. Truman, in boxer e canottiera, si sveglia di colpo su un tavolo nero rettangolare, quasi come fosse rinvenuto in seguito ad una recente morte. Da quel momento in poi, mentre è intento a vestirsi con abiti dai colori scuri, assistiamo al suo monologo che non fa altro che ricordarci avvenimenti storici e accadimenti della sua vita personale, visti dalla prospettiva dell’irriverente scrittore. Vengono elencati i suoi sfortunati amori come anche le sue prime esperienze sessuali da ragazzo e le sue conoscenze, infinite, quanti sono i suoi racconti.
All’interno di questo spazio fuori dal tempo reale, il protagonista parla con una presenza femminile, della quale non vediamo mai il volto né sentiamo la voce. Ma c’è, è presente, tanto che lui ci interagisce spesso anche con una certa fisicità, che porta spesso a credere che questa donna sia esistita davvero. Ciò che emerge di più dai suoi infiniti ed intimi racconti, elencati come fossero brevi trailer tratti da diversi film, è il problema dell’omosessualità.
La sua vita è tormentata da persone che oltre ad invitarlo nei salotti più alla moda della grande Mela, lo deridono (anche se spesso per curiosità e perversione) e lo condannano al supplizio di una vita da loro ritenuta innaturale. In un tratto, più o meno verso la metà dello spettacolo, viene invocata la Madre grazie all’ausilio di molti sofferenti ricordi che riaffiorano nella mente del personaggio. Si affronta il rapporto conflittuale con questa figura sempre distante, ubriaca e scostante nei confronti di un figlio del quale si accorge soltanto una volta, nel momento in cui capisce che è gay: decide di portarlo da un medico per sottoporlo ad iniezioni di ormoni maschili, ma Truman si rifiuta. Di lei, figura materna sempre assente o presente al momento sbagliato, sappiamo poi del suicidio da una finestra.
Quasi a distrarre lo spettatore, ci si accorge che a Truman sembra mancare infinitamente il lato effimero della sua vita, le feste in maschera, la musica e i personaggi famosi. Ci mostra delle gigantografie, fotografie celebri, tra cui quella dell’uccisione del presidente John Kennedy e di Marilyn Monroe.
Lo spettacolo si conclude con alcune pose dell’attore, in piedi su una delle numerose sedie presenti in scena, tratte da alcuni momenti dello spettacolo, dei “titolo di coda” di un film. Il protagonista indossa un elegante abito bianco, indice di un’avvenuta purificazione ed espiazione in seguito a tutti i suoi racconti di una vita oramai vissuta.
Ciò che arriva dritto al cervello dello spettatore è essenzialmente la sua ironia melodrammatica che fa continuamente riflettere sulla labilità ed evanescenza della vita umana. Non è uno spettacolo che tocca le corde del cuore ma fa comprendere in maniera visivamente cruda, l’immortalità umana per mezzo di contrasti e paradossi, tipici della vita di un uomo. Il problema della sua omosessualità e del suo non sentirsi mai pienamente accettato dalla società che lo circonda, lo porta a sparare letteralmente a zero su tutti coloro che furono suoi conoscenti o amici. La morte agisce all’interno dell’azione scenica come tema centrale e caratterizzante dell’intero spettacolo. La morte, è una livella che pialla le varie differenze culturali, di genere o di razza, senza escludere nessuno.
La crudezza del corpo umano, come la foto della materia cerebrale del presidente Kennedy fuoriuscita dal cranio o come anche la masturbazione, spesso mimata o raccontata con toni realistici e surreali dal protagonista, non è altro che rappresentazione di sostanze e materie puramente fisiche le quali non fanno distinzione tra gli innumerevoli muri innalzati dagli uomini tra gli uomini, essendo esse stesse minimo comune denominare di tutti noi. Il titolo dello spettacolo: “Questa cosa chiamata amore”, l’amore di cui parla lo scrittore, lo ritroviamo nell’atto stesso del morire. Secondo lo svolgimento dei fatti, l’amore si può cogliere (secondo il personaggio) solo nel momento in cui ci rendiamo conto di essere realmente vulnerabili e indifesi, simili ai nostri simili.
L’interpretazione di Gianluca Ferrato, si fonde insieme al personaggio da lui interpretato. Colpisce la dimestichezza di un tipo di attore che non smette di sorprenderti e attrarti ma allo stesso tempo sa come rimanere dall’altra parte di un confine (quello del proscenio) che si palesa e si percepisce, perché spesso infranto ad arte. Quesiti e interazioni sono le parole d’ordine, che mascherandosi da finta democrazia, evidenziano lo sfrenato egocentrismo tipico del personaggio di Truman.
Spesso è anche divertente, ci fa ridere e incupire con la stessa velocità di un battito di ciglia. Questo è generato dall’ironia amara che si scatena nella platea nel momento in cui l’attore apre bocca, o semplicemente, si muove. Spesso ci si chiede se il riso è provocato anche dalle caratteristiche fisiche del personaggio, sempre fuori asse e mai simmetrico, dinoccolato e minuto.
La scena non è da meno. E In realtà questo è ciò che rimane più impresso, insieme all’attore: uno spazio delimitato da un tavolo nero e da nove sedie nere,disposte casualmente (alcune dritte altre a terra) nello spazio. Il tavolo sembra essere un piano d’appoggio di una sala operatoria, utilizzato nel corso di un’autopsia e sul quale sale spesso, quasi fosse proprio la persona di Truman l’oggetto di studio dello spettatore e della società che tanto lo ripudiava e amava al tempo stesso. Quel tavolo però, può improvvisamente diventare trono e palcoscenico dei suoi innumerevoli festini e eccessi. Le sedie, alcune cadute altre in piedi ma pur sempre di colore nero, si suppone indichino alcune delle persone che sono entrate nella sua vita ma che effettivamente hanno, infine, abdicato a quei posti.
Gli oggetti di scena sembrano visibili ad una prima occhiata superficiale, ma ce ne sono altrettanti più nascosti che cominciano a paventarsi man mano che i fatti vengono esposti, in particolare alcuni capi d’abbigliamento come le scarpe, il papillon e un manoscritto.
Capacità di uno scrittore come di un regista, è quella di mostrarci visivamente e di circoscrivere l’immagine soltanto ad un pezzo della realtà che ci vuole essere mostrata, e Truman, essendo stato scrittore e regista, ci porta a scoprire tanti nuovi oggetti nel tempo e mai tutti in una volta sola. Con lo scorrere della drammaturgia, ci vengono presentati oggetti e persone: in realtà stupisce sorprendersi a riflettere sulla scenografia, poiché parte di essa è l’attore stesso insieme al suo personaggio. Entrambi costantemente sottoposti allo sguardo, al commento e alla critica di tanti occhi indiscreti pronti ad esporre il proprio giudizio impietoso su di loro.
Visto il 7 aprile
Info
Di Massimo Sgorbani
Con Gianluca Ferrato
Costumi “Laboratorio di costumi” e scene del Teatro la Pergola
Impianto e regia di Emanuele Gamba
Produzione Teatro della Toscana
Durata 1 h 25“