“Treni ed eroi” di e con Francesco Andolfi, per la regia di Gabriele Linari, è andato in scena al teatro Lo Spazio di Roma, dall’11 al 16 dicembre. Un sincero lavoro di ricostruzione e di memoria, un One man show tratto da una storia vera, che ci conduce, attraverso i passi di un aviatore, lungo la prima metà del secolo scorso.
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Treni ed eroi: un sipario aperto
La suggestione del teatro Lo Spazio, sito in via Locri, traversa della storica via romana dove dagli anni ’70 ha sede il polare mercato di via Sannio, è sicuramente una delle scene migliori dove poter dar vita a spettacoli forti di memoria e di emozioni come “Treni ed eroi” . Nell’attesa di Francesco Andolfi, attore e scrittore del testo in causa, gli occhi della sala, gremita di spettatori, sono rivolti al palco. Il sipario è aperto. Non c’è tenda a proteggerlo. La scenografia rapisce e parla da sé. Odora di antico, di storia, di racconti, di forza, di sogni e di speranza esattamente come lo spettacolo che di lì a poco andremo a vedere. Un baule verde, di quelli tanto comuni nel secolo scorso e che ormai oggi vengono considerati “ vintage” ; un casco e una divisa da aviatore, che tante volte abbiamo visto indossare nei film di guerra; nove schermi, uno sull’altro, che formano un grande rettangolo; un bastone. Pochi oggetti che non hanno bisogno di presentazioni, così come la memoria non ha bisogno di orpelli, di cerimonie e di paillettes perché è forte di suo e per esistere e per resistere al tempo ha bisogno solo di cittadini e di spettatori attenti.
Treni ed eroi: una storia nella Storia
L’opera del giovane ventottenne Francesco Andolfi nasce, cresce, si innalza e ruota intorno all’intento del ricordare, del rendere omaggio a una vita passata, senza la volontà di renderla a tutti i costi eccezionale. Eppure è proprio dietro la sincerità delle parole scelte per narrarla, che si riesce a scorgere la sua unicità, l’unicità di una vita tra le vite. L’insegnamento. La necessità che nulla vada perduto, dimenticato. Il bisogno di ricordare perché è anche senza una sola piccola radice, che un albero si inclina, si piega e rischia di cadere.
La storia narrata è quella del nonno dell’attore/autore, ricostruita anche grazie all’aiuto del padre, delle lettere e dei documenti conservati. Un “ guaglione” di Mergellina che, come scopriamo sin dall’inizio dell’opera, giocava libero, per strada, senza obblighi da dover imporre a se stesso o agli altri. Non immaginava che un giorno, sui cortili dei suoi ricordi sarebbe stata costruita una ferrovia, su cui sarebbe passato un treno che lo avrebbe portato lontano. “ Treni ed eroi” , non di certo a caso, è il titolo della pièce. Gli eroi, viene da sé, sono loro, i nostri nonni e le nostre nonne, i nostri pro” zii e le nostre pro” zie, nati prima di noi e che, vivendo la loro vita, hanno dato una direzione ben precisa alla nostra storia. I treni erano i mezzi che li portavano lontano o su cui vedevano andare lontano figli, parenti, amici, in un’Italia ancora contadina, in un’Italia e in un’Europa tutta da attraversare.
Quando al nonno di Andolfi venne chiesto che cosa volesse fare da grande, dandogli da decidere tra un lavoro ordinario e una divisa da aviatore, optò per la seconda possibilità. Lasciò che il ragazzo scegliesse per l’uomo che sarebbe diventato. Rassicurò sua madre che avrebbe volato basso, nascondendo che in aviazione è proprio il volare basso il pericolo maggiore; salì sul treno e partì. Erano gli anni ’30 ed era un ragazzo. Ci furono momenti di gloria, di lettere spedite in bella grafia e di fortuna. Non si poteva immaginare, in quegli anni, che ci sarebbe stata una seconda guerra e soprattutto, una volta annunciata, che non sarebbe stata “ lampo” come voleva far credere Mussolini.
L’opera si apre con la prima pagina di un giornale che annuncia l’armistizio (mostrata sui nove schermi) e con Andolfi, nei panni di suo nonno, che sarcasticamente recita: “Sì, è stato proprio bello quel Natale del ‘43”. Come per tantissimi altri soldati italiani, anche per l’aviatore, iniziò lo spaesamento, l’insicurezza, la fuga e la paura. Molti di loro, citando Andolfi, pur non avendo tradito l’Italia, subirono la deportazione; si ritrovarono, quasi senza saperlo, a morire sulla neve della Russia; vennero condotti con la forza a Salò, dove furono picchiati, insultati, costretti a respirare la paura in false e ripetute messe in scena di plotoni d’esecuzione senza esiti e senza morti.
Treni ed eroi, una narrazione in prima persona
Andolfi, in questo e in altri casi non spiega quale fu il punto di vista di suo nonno. Ci rende solo il ricordo narrato, come detto, senza forzarlo. Non ci è dato di sapere cosa credette, cosa temette quando si ritrovò a salire su diversi e tanti treni in diverse e tante zone dell’Europa, con l’unica volontà di tornare a Mergellina e l’impossibilità concreta di realizzare il suo desiderio in fretta e con un unico viaggio. Con la possibilità reale invece, di essere fermato, preso, catturato. Andolfi non spiega chiaramente cosa pensò lungo i passi della sua storia e cosa pensò di quella Storia più grande che stava vivendo. Forse perché chi ha vissuto delle pagine importanti, fatte di sofferenza, è restio nel mostrare tutte le cicatrici riportate. Scelta lecita e giustificata questa, dall’evidente e coerente direzione del testo. Quello che manca probabilmente, è una spiegazione più chiara di quanto invece, avvenne a seguito del 25 luglio del 1943 e poi, dell’8 settembre dello stesso anno. Non di certo per avere una lezione di storia, ma per poter far sì che la comprensione di quegli anni, delle vicissitudini dei tanti soldati italiani rimasti in balia di sé e quindi, del testo stesso, fosse accessibile a tutti e non solo a molti.
Treni ed eroi, fra omaggio e suggestioni
Forte e chiara arriva, oltre a quella della violenza, anche la forza della solidarietà e dell’aiuto tra italiani, che in momenti difficili come in quello narrato non sono mai mancati, come molti di noi sanno grazie ai racconti dei nonni, di chi c’era. Così, l’ex aviatore, più volte, decide di “tradire il soldato per l’uomo”, senza pensarci su troppo e, soprattutto, senza pentirsene. Epico il momento in cui lui, Luigi detto Gigi (solo in questo momento il nonno ottiene un nome proprio. Lungo tutto il resto del percorso è chiara la volontà di volerlo rendere un personaggio più universale che personale), conosce Vincenzo e, subito dopo avergli chiesto di poterlo chiamare Enzo, per entrare in un rapporto più confidenziale, gli offre l’unico, prezioso pezzo di pane a sua disposizione, accuratamente conservato nel fondo di un vecchio calzino. A tratti, lungo lo sciogliersi dell’opera, i nove schermi si illuminano dando vita a immagini che sottolineano la storia narrata, mai in modo didascalico, ma sempre suggestivo. Sono per lo più un susseguirsi di occhi e di bocche, di sguardi, di parole, di espressioni. Poi, l’ultima immagine trasmessa, rende il doveroso omaggio al nonno dell’autore, ispiratore inconsapevole degli applausi che seguiranno.
Ottimo l’ultimo monologo che ci regala l’attore/scrittore al termine della messa in scena, monologo che ruota intorno all’appunto: “La dittatura è una somma di arbitri individuali”. Quello che ci lascia è il cauto consiglio del ben guardarci da tali arbitri, da questi “poteri”, che uccidono “l’uomo”.
Francesco Andolfi si è dimostrato all’altezza di un progetto molto ambizioso, sia come scrittore che come attore. Un One man show di ottimi livelli, soprattutto se pensiamo alla giovane età del suo creatore. Sublime l’interpretazione dell’ex combattente della grande guerra, da cui suo nonno, ragazzo, andava talvolta, a leggere dei libri. L’ex soldato, interpretato da Andolfi tramite un repentino cambio di atteggiamento, racconta e narra di quale tragedia fu la prima guerra per i soldati italiani e, preso dal suo ricordare, il bastone da invalido che ha in mano si trasforma in un cavallo. In un istante ci troviamo nel racconto del racconto…dove non c’è bisogno di chiudere gli occhi per restituire forza a un’immagine. Tutto è lì. In quel momento. Sul palco.