TRE ONCE DI LANA NERA @ Festival del Labirinto: una scienziata perduta nel frugar fra le stelle

Nell’ambito del Festival del Labirinto è tornato in scena l’interessante lavoro TRE ONCE DI LANA NERA, regia di Giacomo Troianiello, e drammaturgia di Emanuele Principi, con Maria Chiara Tofone, Emanuele Cordeschi Bordera e Lorenzo Carità Morelli.
Già in nomination per il premio Special off al Roma Fringe Festival e prima ancora presentato al Ridotto di Todi e poi selezionato al Terni on, lo spettacolo si pregia anzitutto di una interprete intensa, profonda nello sguardo e nella voce, mutevole e trasformista al tempo stesso, Maria Chiara Tofone. Ha poi un testo inquietante e davvero ricco di suggestioni che, però, restano come sospese e non del tutto risolte, lasciando un retrogusto amaro (e nelle note di regia si parla di questo spettacolo come ad una “caramella” da scartare), quasi mancasse un tassello logico che lo completi rendendolo un’ottima e più versatile idea.

tre-once-di-lana-neraAndiamo per ordine, la Tofone interpreta una scienziata rimasta sola per anni in un osservatorio spaziale localizzato in un eremo dai contorni spazio-temporali volutamente poco definiti. Così come sono poche le interazioni della scienziata con gli altri esseri umani, eccezion fatta per un fattore e sua moglie, Maria che le portano ciclicamente da mangiare, anche dopo la morte di lui (dai contorni poco chiari). La scienziata riceve la notizia che dovrà andarsene: il suo lavoro è finito, lei non serve più (una metafora neanche troppo involontaria dello smarrimento post-lavorativo) e ora si apre per lei la prospettiva della solitudine, la comprensione del tempo perduto e dello spazio nel mondo da reinventare (da lei che su tempo e spazio ha improntato le coordinate del proprio lavoro) che innesca la drammaturgia ed il conseguente delirio che si sviluppa in una continua e ossessiva interazione dell’interprete con dei fogli sui quali appunta meticolosamente, con un pennarello nero immagini e simboli, espressioni delle proprie disquisizioni sull’universo matematico e fisico in cui è immersa.

Il messaggio che emerge dalla drammaturgia è legato al rapporto con questa “prossima” e “forzosa” inutilità a cui la scienziata non sembra pronta (“Io divento il mio mestiere” afferma laconica) e che mescola con riflessioni amare e desolate e, a tratti rabbiose sulla solitudine dello spazio, regalandoci metafore e sinestesie davvero preziose.

L’impianto scenografico scelto si compone di una scrivania con fogli sparsi e vari scatoloni, ed un'impalcatura frontale che sembra richiamare una finestra, o meglio ancora una vetrata che immaginiamo sia quella dell’osservatorio dal quale la scienziata “fruga fra le stelle” (e non semplicemente “osserva le stelle”), cercando quasi un senso alla loro esistenza e di rimando alla propria. La luce fredda puntata sull’attrice e sui fogli e la ripetitività di certi gesti e pensieri ci restituiscono una chiave di lettura volutamente criptica sul senso ultimo dello spettacolo. Buono il disegno luci, e apprezzabile l'aspetto sonoro e grafico della messa in scena. La presenza visibile del microfono in scena che amplifica la voce dell’attrice e le due figure ai lati della stessa seduti ad una loop station che parlano con lei, contribuiscono a rompere la convenzione onirica della messa in scena per favorire uno scambio dialogico, che a volte sembra piuttosto un parlare della scienziata con se stessa delle sue paure. Eppure, l’interpretazione potente del testo che ne dà l’attrice basta a salvare tutto, recuperando l’attenzione sull’animo della scienziata, sulla sua rabbiosa desolazione in un climax crescente di frustrazione che lascia quasi impietriti.

La pecca reale di questo testo sta però nell’essere, come si diceva, vagheggiante soltanto sul tema, interessante ma doloroso della solitudine esistenziale e nel disagio psico-fisico conseguente alla perdita di un reale scopo (quasi che il solo lavoro ci regalasse esso soltanto un qualche significato esistenziale). Qui tale messaggio appare diluito nelle tante digressioni fisico-esistenziali della scienziata appesantendo la parte centrale.
A nostro avviso, invece, sarebbe stato utile, seppur fuorviante, variare e cedere un po’ sul versante del drama, coinvolgendo le due figure, recuperando un certo naturalismo e spiegando qualcosa in più sul loro rapporto con la scienziata. Permettere cioè una minima interazione che mettesse questo personaggio in rapporto non solo con se stessa ma anche con gli altri, aspetto che amplificherebbe la successiva disperazione eremitica della stessa.
Molte sono le occasioni per costruire un tessuto narrativo intorno a queste tre figure, anche sconfinando nel nero (giocando per esempio sulla morte di lui), ma la scelta drammaturgia e registica (che rispettiamo) di mettere in rilievo solo una parte (la scienziata ed il suo anacoretismo agli sgoccioli) ci lascia un dubbio circa il ruolo degli altri due personaggi, che invece avrebbero potuto portare sviluppi aggiuntivi a quelli esposti, e che ci hanno lasciato più di un interrogativo sulla loro effettiva valenza drammaturgica.

Visto il 19 maggio

Info:
Tre Once di Lana Nera
(Sala Specchi) per la regia di Giacomo Troianiello,
drammaturgia Emanuele Principi, con Maria Chiara Tofone, Emanuele Cordeschi Bordera e Lorenzo Carità Morelli.
Foto di Pietro Ciavattini

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