Tre stanze di albergo, tre monologhi, tre solitudini, due attori, una storia. Serena Sinigaglia, dopo Utoya, ci conquista ancora con una regia intensa. Al Fabbrichino di Prato fino a domenica 5, e poi a Milano al Teatro Ringhiera dal 9 al 19 febbraio.
Maria Grazia Plos e Francesco Migliaccio sono i protagonisti di TRE ALBERGHI di Jon Robin Baitz, produzione del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia. L’interpretazione è stata così forte e coinvolgente che, al termine della prima a Prato, gli spettatori non riuscivano a smettere di applaudire.
Il Teatro Metastasio propone questo lavoro di Serena Sinigaglia dopo aver curato la produzione di UTOYA (vedi la nostra recensione) della stessa regista, e si conferma un teatro capace di scelte intelligenti e lungimiranti, in grado di offrire al pubblico spettacoli di alto livello, capaci di essere innovativi, senza niente da invidiare ai teatri delle grandi città.
Attraverso la storia di una coppia, Kenneth e Barbara, attraverso tre alberghi, “dove tutto è di passaggio, dove nessuno deve affrontare la sua vera identità”, Baitz, contemporaneo drammaturgo americano (autore di successi televisivi come Brothers & Sisters), ci conduce dentro le viscere sofferenti dell’essere umano, ci catapulta nel dolore di una coppia che ha tradito se stessa, i propri ideali, il proprio amore, che con rabbia e rassegnazione si condanna, e condanna un’intera generazione, che, dall’utopia di cambiare il mondo, in nome del profitto, ha rovesciato a terra e sepolto nella sabbia le proprie lacrime, lasciando un mondo peggiore di come lo ha trovato.
Ken e Barbara sono marito e moglie. Da giovani militanti nei Peace Corps americani, adesso Ken lavora per una multinazionale che esporta latte in polvere nel terzo mondo, la baby formula; ne diventa dirigente, entra nella stanza dei bottoni, guida le vendite, trova le strategie di marketing migliori per fare affari, business, sulla pelle delle madri africane. La moglie Barbara lo segue a giro per il mondo nelle lussuose suite d’albergo, con la servitù e la piscina, nei paesi poveri del mondo, senza toccarne la miseria, si illude che “l’uomo che ha sposato e l’uomo che vende la baby formula in Africa, non siano la stessa persona”. La coppia non si incontra in scena, come non si incontra nella vita, entrambi svuotati delle emozioni, annullati da un mondo fagocitatore che li ha ridotti sabbia dentro, non riescono più a comunicare, a riconoscersi.
La scena essenziale con una ventina di grossi barattoli sparsi, è la prima stanza di albergo a Tangeri, in Marocco, un bicchiere, alcune bottiglie, una valigetta con dei documenti. Ken, elegante, con al polso un evidente orologio d’oro, ci racconta, cinico e asettico, come sia pulito il suo lavoro di “far fuori le persone”, licenziare chi non ha capito che al primo posto stanno gli affari, i soldi, il successo, come sia semplice lavorare per un’azienda “moralmente indifendibile”. Kenneth Hoyleed, che ha cambiato il suo nome da Ken Hirshkovitz, sorride delle sciocchezze in cui credeva il padre ebreo comunista e, nonostante la madre sia sopravvissuta alla strage di ebrei di Odessa, paragona se stesso e i suoi colleghi ai nazisti, ed ogni volta fa venire i brividi.
Il suo monologo si fa sempre più lacerante, stretto tra i numerosi bicchieri di alcool, che butta giù uno dopo l’altro, una prosa rapidissima, l’incalzare costante del ritmo, sottolineato dal ticchettio di un orologio. La velocità delle parole è interrotta dalla voce della moglie fuori campo, voce ossessiva della coscienza che lo accusa senza appello “camaleonte, lucertola, serpente”. Ken risponde con un sorriso vuoto, un ghigno di pietra, stanco del moralismo della “povera Africa” di fronte al quale “cade in un trans zen prefabbricato”, ascolta, sorride con la solita faccia di circostanza, ma nonostante questo cinismo, riesce a rovesciare sul pubblico il suo dramma, la sua condanna: “sono davvero così?” chiede alla moglie e la voce fuori campo risponde tristemente “sì, temo di sì”.
La moglie Barbara è in resort di lusso sulla spiaggia delle Isole Vergini, nel Mar dei Caraibi, per il meeting che l’azienda organizza ogni anno per i suoi dirigenti e le loro famiglie: deve tenere un discorso alle mogli, per dare loro preziosi consigli di cucina, suggerimenti per tenere a posto la casa e la buona educazione nei paesi esteri. Il suo monologo è magnetico, ha un crescendo di intensità e di emozione che assorbe completamente l’attenzione del pubblico. La moglie ci svela i drammi di questa coppia, che sempre di più ha perso se stessa e la propria identità, seguendo la carriera di Ken: il figlio sedicenne è stato accoltellato su una spiaggia di Bahia in Brasile, per rubargli un orologio nuovo dal polso, che proprio loro gli avevano regalato. Questa donna porta in scena la sua tragedia in modo violento, fuma una sigaretta dietro l’altra, contraltare dei bicchieri di Martini del marito, si agita con passione sulla scena, e il suo discorso da buona casalinga borghese si trasforma in una confessione di fallimento, in un urlo di rabbia e angoscia che invade il teatro. Durante il monologo trasforma la scena: apre i barattoli di latta e ne rovescia a terra il contenuto, sabbia, come la spiaggia dove muore il figlio, come le sue ceneri, o come il latte in polvere della baby formula, o ancora come il deserto dell’anima che hanno dentro questi personaggi. I barattoli vuoti li scaraventa a terra e nelle quinte, e in ogni lancio il rumore fragoroso sottolinea il suo senso di colpa per il suo fallimento, per la morte del figlio, quello strappo che ogni giorno sente da ciò in cui aveva creduto. Dice alle giovani mogli “siate prudenti, fate attenzione a non trasformarvi in pietra o vi accorgerete troppo tardi di stringere nel pugno solo un mucchietto di sabbia”. A Barbara resta solo la consolazione del ricordo dell’amore che li ha legati, su una spiaggia del Messico in viaggio di nozze, la speranza infranta di essere persone migliori di quelle che sono diventate.
Adesso la scena è ricoperta di sabbia bianca striata dei passi degli attori, delle storie dei personaggi, delle loro sofferenze. Entra un uomo, con una vecchia camicia aperta, Ken, con una bottiglia in una mano, un flacone di medicinali nell’altra, irriconoscibile. Sulle note di Perfect Day i due si incontrano, questa unica volta, si guardano senza parole, come in una piega del tempo in cui i due lembi si possano toccare, poi lei si volta e se ne va. La terza stanza d’albergo è in Messico, Ken è stato licenziato dopo il discorso della moglie, la testa è stata tagliata al tagliatore di teste. È andato a cercare la moglie su quella stessa spiaggia messicana. Mentre butta giù le pasticche una ad una con sorsate di whisky dalla bottiglia, incide un nastro per la madre e si abbandona alla solitudine di una morte lenta, in cui chiede alla madre di accoglierlo a casa. Questo personaggio sconfitto in tutto cerca un rifugio, un luogo che non sia la stanza di albergo di passaggio, ma sia casa, quella casa che non ha mai avuto, quella sensazione di calore che non sa cosa sia.
Serena Sinigaglia è riuscita a tirare fuori il meglio da questo testo, rendendolo avvincente, credibile e vicino ad ogni spettatore. La successione delle scene coinvolge sempre di più fino ad addentrarci. Maria Grazia Plos e Francesco Migliaccio sono strepitosi nella verità e nella forza dei personaggi che propongono, non ci si distrae un attimo: ogni gesto, ogni frammento e parola hanno una potenza che arriva a parlare alle coscienze del pubblico. Ken si chiede come sia possibile che non si sia fermato prima, si chiede perché non abbia detto basta al suo correre, macinare le anime che aveva attorno, fino a triturare anche la sua. E non c’è una risposta a questa cecità. Accade e basta.
Info:
TRE ALBERGHI
di Jon Robin Baitz
traduzione Masolino D’Amico
regia SERENA SINIGAGLIA
con Francesco Migliaccio, Maria Grazia Plos
scene Maria Spazzi
costumi Erika Carretta
suono e luci Roberta Faiolo
produzione Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia
31 gennaio/5 febbraio 2017 | feriali ore 20.45, sabato ore 19.30, domenica ore 16.30 | Fabbricone_Sala 2 (Fabbrichino) Teatro Metastasio Prato