Al centro di Trapanaterra è la tematica del ritorno, dalla quale si dipanano, strettamente connessi, altri motivi. Quello del ricordo, innanzitutto, ma anche quello del confronto con chi è rimasto, con chi ha vissuto cosa si sarebbe vissuto e dal quale ci si è allontanati, che ora è materia sconosciuta, ma immaginata.
Un ragazzo vive, tra paure e passioni sopite, il suo tempo difficile in una raffineria. Riguadagna l’aria uscendo da una botola con il fiato corto e si prepara a mangiare un panino. Il grande impianto di tubi che gli sta attorno nasconde strumenti musicali di ogni genere, così, iniziando da improvvisate percussioni, nella solitudine della sua fatica accende qualche luce e inizia a produrre ritmi forti. Il suo sfogo è interrotto dall’arrivo di una ben più tradizionale musica, quella dell’organetto del fratello, tornato al paese dopo aver passato tanti anni fuori tra studio e viaggi. Musica classica e popolare si sovrappone a quella disarmonica e pressante e tra i fratelli inizia un dialogo/scontro, che prosegue ininterrotto per tutta la durata dello spettacolo e che rivela dissapori e rancori tra i due, ma anche tutti quei ricordi che solo l’infanzia condivisa tra fratelli può generare. Da una parte c’è chi ha scelto di restare, fedele alla propria terra, alle necessità della famiglia e al suo destino. Dall’altra chi ha scelto invece di andar via, a studiare, ma anche a vedere cosa altro c’è al di là di una regione ostile, che poco offre e poco lascia sognare, un luogo che sembra essere stato abbandonato dallo Stato e che non dà scampo a chi resta. La domanda centrale della storia, se abbia più coraggio chi parte o chi resta, non trova ovvia risposta. Entrambe le scelte appaiono perdenti, perché lacunose, insufficienti ad una soddisfazione che sia lavorativa ed umana, che permetta la sopravvivenza senza snaturare, senza richiedere una pesante scesa a compromessi o una rinuncia agli affetti e alle radici.
La storia particolare è naturalmente esempio in piccolo di una Storia generale, di una condizione tipica del Sud. La raffineria che dà lavoro, ma mette in pericolo, e il bonus idrocarburi sul quale si ironizza con una canzone fanno pensare a situazioni attualissime. Il lavoro si paga a prezzo caro, in gioco è la vita, come ricorda un cartello che appeso sull’impalcatura di tubi: “Pericolo di morte”. E allora l’unica via di uscita per chi resta e accetta quella condizione è sperare che tutto vada bene, affidandosi ad una precaria e un po’ beffata fede. Dietro il cartello c’è Cristo.
I due attori (Dino Lopardo e Mario Russo) sono bravissimi, animano la storia con emozioni vive e pulsanti, commuovono, ma fanno ridere, inteneriscono e soprattutto coinvolgono. Concorre alla riuscita della resa di un’autenticità avvolgente, che trattiene l’attenzione dello spettatore dall’inizio alla fine, la scelta di usare un dialetto molto stretto, sebbene sempre comprensibile.
Il massiccio allestimento scenico crea una sorta di gabbia, che contiene la vita e i risentimenti del fratello rimasto a casa. Fra quei tubi è tutto il suo mondo, compresi sogni e dolori. Il richiamo ad una emozionalità messa da parte e alle tenerezze del fratello è subito come un assedio. Nello spazio libero della scena tutto attorno è il mondo dei ricordi, del passato, ma anche quello del futuro, della possibilità di nuove cose da fare insieme. Le scelte registiche intendono la storia come un continuo salire e scendere, entrare ed uscire, nel quale ci si sente sempre davvero fortunati di essere a teatro a vedere a questo spettacolo.
Visto al Teatro Spazio Diamante il 7 dicembre
TRAPANATERRA
Ideato da Dino Lopardo
Con Dino Lopardo e Mario Russo
Musiche di Mario Russo
Scene di Andrea Cecchini e Andrea Lopardo
Luci Giovanni Granatina Dimitri Tetta
Supervisione artistica Matteo Cirillo