Incisivo e acido, TORRE ELETTRA, il nuovo lavoro del regista drammaturgo Giancarlo Nicoletti resta in scena al Teatro Brancaccino fino al 29 gennaio: un’opera corale, messa in scena dal talentuoso (tutto) collettivo Planet Arts.
Da non perdere. Da non lasciarsi sfuggire per cogliere quell’analisi della realtà che Nicoletti non manca mai di lasciarci, a volte lungimirante, qui amaramente prospettica, sarcasticamente illuminante quelle tensioni sottese o fin troppo espresse, quei nervi scoperti che rendono la nostra società così inquieta e rabbiosa ma anche così terribilmente sola e infinitamente “morta” nella tensione idealistica frustrata, non convincentemente sostenuta da una lotta valoriale sincera e convinta, disillusa com'è dai valori civici e dalla lotta di classe, dalla malversazione che sfocia in malcontento,spesso violento, che si riflette anche nei gesti delle persone comuni, un malessere che si insinua nelle famiglie, riempiendole di rancore inespresso.
Un’opera che ci pone domande sul presente e sul possibile futuro che stiamo costruendo, sulla possibile disfatta morale cui potremmo andare incontro, sul senso della famiglia come ancora di salvezza dall’eterno disfacimento dei ricordi di una democrazia giusta.
Torre Elettra è un quartiere, ma anche uno stato d’animo. Quello combattuto e insofferente di chi vive una terra di confine: una periferia fittizia di una Roma futuristica di cui richiama (ironicamente, ne siamo convinti) la parola “Torre” delle tante borgate romane (le Torre Maura, Torre Spaccata etc che conosciamo dalla cronaca)… e, al tempo stesso, il concetto di avamposto romano, di difesa ultima della “gente comune” contro il Potere; un compito svolto con sprezzo del pericolo dal un fantomatico “Fronte comune” che governa le strade, come un movimento anarchico insurrezionalista che si oppone al potere centrale, assiepato nel centro città.
In questo quartiere “di confine” vive una famiglia “di confine”, disfuzionale, ferita dalla perdita del padre che guidava quella rivolta sociale e quella famiglia, caduto in preda ad una misteriosa malattia.
La moglie che lo assisteva, Velia (una splendida Liliana Massari) vive un rapporto conflittuale con la figlia Alma, (una Valentina Perrella acida dagli occhi sdegnati) lesbica dichiarata che la incolpa di aver ucciso il padre per vivere una relazione con Sergio (un Matteo Montalto piuttosto convincente), divenuto il nuovo capo della milizia armata. Intorno a questa famiglia ruotano la fidanzata-trafficante di televisori, Olimpia (una sarcastica Cristina Todaro) e l’amico giornalista Valerio (un Alessandro Giova pieno di piccole adorabili sfumature). Il ritorno di Flavio (un febbrile Luciano Guerra), fratello di Alma spingerà quest’ultima ad attuare un folle piano per vendicarsi della madre e del nuovo compagno.
Non mancano in quest’opera una molteplicità di suggestioni alte, prima fra tutte il mito eschileo ed euripideo di Elettra (con vari ribaltamenti caratteriali rispetto ai personaggi classici) e tanti altri richiami che il regista ci ha spiegato in una precedente intervista: da Pasolini (le periferie ed il dialetto romano spiccato) a Sartre, passando per ÒNeill (la saga familiare), Yourcenar (gli effetti della guerra nella società). Ma come sempre, a risaltare è la rielaborazione che Nicoletti fa di testa sua di tutti questi spunti, unendoli in un ritratto a tratti doloroso più che corale, di anime futuristiche, ma più prossime a noi nell’animo di quanto potrebbe sembrare.
Quelle in scena sono infatti, tutte quante, figure rabbiose che si oppongono ad un Potere che li ha condotti per 50 anni in una mala gestio fino alla inevitabile rivolta (e nulla di tutto questo è lontano dall’ingenerato e crescente odio sociale per l’attuale classe dirigente, incapace e corrotta ), anche se Olimpia afferma sconfortata che “è cambiato tutto ma non è cambiano niente” (nulla di nuovo, dunque ) e dove ora “la giustizia si fa da soli” (impeto per ora soppresso seppure con sempre crescente difficoltà da una società in lotta perenne con l’estraneo).
Un contesto lontano, lontanissimo da quello più intellettuale ed “europeo” (definito opportunamente “occidentale”) da cui vengono il giornalista Valerio (un Pilade delle parole, almeno all’inizio) e Flavio, (un novello “Oreste” meno malato dell’euripideo ma decisamente distaccato dalla lotta), intrisi di un sentimento che definiremmo ecumenico o europeista (vengono dalla Germania, del resto), per nulla arrendevoli negli intenti, se non fossero incapaci di confrontarsi con la società reale, (sono un po’ la metafora del disinteresse dei poteri europei verso i popoli stessi); due amanti di salotti fumosi dove si discute di tutto senza sporcarsi le mani (un po’ come i politicanti di oggi). Un mondo in cui Flavio/Oreste vuole tornare e da cui Valerio/Pilade scopre infine di voler sfuggire per “dominare il caos” (parole sue) e scoprire il “Mare” della realtà più crudele, abbandonando la “piscina” della retorica fine a se stessa.
La scenografia dello spettacolo, che riproduce l’appartamento (e pochi esterni) è emblematica dell’ovattamento della famiglia rispetto al mondo esterno in conflitto, rispetto al quale restano spettatori disincantati (vedono bruciare un palazzo senza battere ciglio): i mobili, le cornici delle porte sono realizzate attraverso tantissime scatole di cartone rigido che affollano la scena. Su alcune i protagonisti si siedono, altre vengono superate non sempre agilmente, altre disegnano delle porte attraverso le quali sparire nelle quinte, altre ancora vengono usate come divani o tavolini; le più sono alle loro spalle disegnando una parete. Ne deriva un certo disordine che rispecchia lo stesso disordine piscologico e morale dei protagonisti, quell’affastellamento di emozioni, delusioni, rabbia risentimento, che si saldano l’una con l’altra in una piramide di scatole vuote che però, che ironia!, sono per l’appunto fatte tutte di un materiale fragile, un “cartone” facile da aprire e chiudere, usato per nascondere i televisori di Olimpia come anche i ricordi e le amarezze private di molti personaggi. Vuoti di valori come molte loro anime, del resto.
La regia dirige piuttosto alacremente gli attori, calibrando la loro presenza sulla scena, senza che si affollino in uno spazio denso di oggetti. Il ritmo dello spettacolo è piuttosto veloce nella seconda parte, i dialoghi (quelli drammatici) sono il punto forte di Nicoletti e l’ossatura drammaturgica stessa vive dei momenti più intensi nei confronti fra i tre membri della famiglia, lasciando agli altri il ruolo del (fu) Coro classico (Olimpia), dell’antagonista (Sergio) o della spalla (Valerio/Pilade), non mettendoli però da parte.
I passaggi descrittivi della situazione socio-politica di Torre Elettra nelle parti iniziali risentono di una certa complessità verbale nell’esposizione che si radica nella lunghezza dei periodi (una costante di Nicoletti), troppo dettagliati per essere realistici, da sfrondare solo nella parte iniziale che risente qualche lentezza, poi recuperata nell’evolversi del dramma, ben sostenuto dalla improbabile (per fisicità) coppia di fratelli, che pero mostrano una certa affinità e sincronia negli sguardi e negli abbracci, quasi rasenti l’incesto tanta la profondità dell’intesa.
L’assenza di musica, eccezion fatta per un richiamo pop, conferisce al tutto una dimensione realistica che impone il silenzio e il parlare degli sguardi, una scelta vincente anche per l’espressività del corpo attoriale tutto (il silenzio sdegnato di un Montalto per i figli di Velia vale più di mille parole). Emerge l’estro di un Giova (Valerio/Pilade) sempre con gli occhi alzati, quasi adoranti verso il suo Flavio (Oreste) che non amerà mai: Oreste è un’anima morta, spenta e malata come la madre e le sorelle ed in esse regredisce; Valerio, invece, è un personaggio in crescita, l’unico forse che ha una vera e propria rivalsa.
Ci restano impresse per profondità anche le amarezze esistenziali di Olimpia (brava e controllatissima la Todaro a non cadere nella macchietta della romana tamarra) e lo sguardo acceso di Liliana Massari rivolto al pubblico come se si truccasse allo specchio: la sua torsione del busto e del collo flettendo il trapezio, svelando la vena gonfia di rabbia sul collo, è emblema di una rabbia trattenuta e poi inevitabilmente esplosa verso una nuova generazione che, non sa spiegarselo, “non crede più a niente” che si smarrisce mentre la sua giovinezza fugge invece via, mentre lei cerca un nuovo inizio, altrove.
Quello che TORRE ELETTRA mette in scena, in effetti, è un conflitto di classe e generazionale (del tutto attuale) prim’anche che politico in senso lato, che si risolve in uno scontro fra anime morte e spossate dal procedere dei propri rancori e del tempo stesso, che tutto logora (anche l’odio), lo stesso che confonde i ricordi, che unisce nel dolore della malattia i tre membri della famiglia nucleare.
Si disegna così una generazione futuristica che non è ciondolante senza uno scopo come quella “Erasmus” del precedente “Kensington Gardens” né grottesca e carica di retorica come quella di “Festa della Repubblica”, ma appare invece disagiatamente anarchica, stanca della democrazia e delle menzogne del Sistema ma non ancora del tutto in grado di confrontarsi con la Realtà per creare qualcosa di alternativamente valido perchè il Destino "si sceglie" come si ripete instancabilmente nella piéce, ma nessuno è abbastanza vivo per farlo.
Info:
19 – 29 gennaio 2017
TORRE ELETTRA
con Valentina Perrella
Liliana Massari
Cristina Todaro
Luciana Guerra
Alessandro Giova
Matteo Montalto
www.planetartsitalia.com
drammaturgia e regia Giancarlo Nicoletti