“Si respira il senso di un inizio, qui, in un grande parcheggio di auto, dove si sono dati convegno un gruppo di uomini. Sono fratelli e intendono inaugurare un modo nuovo e migliore di stare insieme. Migliore, rispetto a che? Al mondo da cui si sono separati, all’attività alienata, al lavoro stipendiato, alla politica e all’arte. Non credono più a queste forme della vita sociale. Nel garage c’è la pace della polvere, anzi c’è l’acuta malinconia dei teli copri-polvere che rivestono le numerose auto lasciate in deposito.
Gli stridii degli pneumatici e gli eco delle lamiere sembrano gettare squarci di luce sulla potenzialità dei motori tenuti a riposo. Come belve in gabbia, queste auto sono le cellule del nuovo seme che i fratelli intendono seppellire. Nulla di fantasmagorico essi hanno nelle mani: non colori, non profumi, non meraviglie dei sensi. Nulla, o meglio, essi hanno questo desolato parcheggio di macchine inerti. Qui, in questo grigio parcheggio europeo, americano, cinese, russo, australiano, africano, latinoamericano, avvengono trasmutazioni degli oggetti e trasvalutazioni di tutti i valori dell’arte e dell’umanità.” Comincia così LA VITA NUOVA, l’ultima sfida di Romeo Castellucci andato in scena allo Spazio DumBO di Bologna dal 24 al 25 gennaio per un totale di 4 repliche.
In prima nazionale al DumBo, nuovo spazio artistico di Bologna, l’ultimo evento di Romeo Castellucci appare da subito estremamente rituale: l’azione ha priorità sul dire. Un’azione simbolica e rarefatta. Ieratica. Lunghe file di auto coperte da teli bianchi. Un non luogo, un immenso parcheggio, estremamente antiartistico, diremmo, banale. Fra di loro, un uomo in tuta bianca. Un parcheggiatore, forse. Ma subito, una scenografia sonora estremamente bucolica, uccellini e rumori della campagna, e la banalità scivola nel sacro. Un deserto lunare, o una crosta di lava bianca, o un gregge, insomma, un fiume bianco e silenzioso, ed un pastore.
Poi un gruppo di pastori. Sono i controllori, i protettori della loro mobile ricchezza, custodiscono e accarezzano le auto – pecore, le vigilano. Ma sono anche abbigliati di bianco, in lunghe tuniche sacerdotali: e indossano, tutti, sandali femminili (li notiamo: ce n’è un paio appoggiato al cofano della prima auto, in evidenza), evocando il potere delle donne, la loro creatività, la loro capacità di dare la vita, la loro azione civilizzatrice atavica, eterna. Pian piano, mentre si scivola dalla rituale cura al rituale tout court, lo spazio si altera. Le macchine vengono spinte via: tutte, eccetto una. Viene scoperta, snudata dal telo bianco. Sarà lei l’ara, l’altare di creazione di un rito nuovo. E anche il non–luogo post moderno in cui ci troviamo, sbiadito dal fumo e dal gioco reiterato delle luci, appannato, diventa, nei gesti rituali, un tempio. I sacerdoti si riuniscono in cerchio, l’eterno gesto sacro. Uno di loro, adesso, parla. Annuncia che c’è necessità di nuovo inizio, una ‘vita nova’, un getto verde che in qualche modo deve germinare dall’arboscello dorato – il ramo d’oro di frazeriana memoria? Forse… – che, consegnato a uno spettatore, testimonia del bisogno estremo di rinascere. Del resto, libertà, ci dice, è l’unica parola che non sembra creata dall’uomo: da chi, allora? E che significa? Libertà è andarsene da qualche parte. Spazialmente, temporalmente, ontologicamente. In nuce, si tratta del non-essere-ancora di Ernst Bloch. Nell’opera Lo spirito dell’utopia egli sostiene che il futuro sia iscritto nel presente come possibilità oggettiva. La sua concezione utopica risente fortemente dell’influenza del naturalismo rinascimentale e del concetto di natura naturans di Giordano Bruno. La materia è infatti concepita come forza creativa, pervasa da un impulso verso la propria realizzazione, verso il proprio rinnovamento . Non è mai data e compiuta, né limitata, ma sempre e sempre possibile. Aperta alla speranza, che per Bloch supera l’inquietudine, passiva, inutile e nichilista: la speranza invece è una via aperta, un modo di andare oltre, superare il limite, riconoscere che esiste una possibilità, e una possibilità non irreale. Coincidenze concettuali evidenti. In ogni caso, però, Ernst Bloch, come ha dichiarato Castellucci stesso, non è fondamentale né esplicitamente citato. Resta sullo sfondo, in consonanza. Non altro.
Che altro, allora? Le immagini. Scorrono come un fiume. L’auto viene rovesciata, ma il gesto rimane comunque rituale, delicato, per niente rivoluzionario: un gesto tradito, duplicato. Sospesa sul fianco, viene fatta ruotare più volte, diventando mezzo di ostensione per vari simboli. Una testa classica. Un teschio. Una reticella di arance di cui una soltanto finirà volutamente schiacciata dalla ruota- in sacrificio, diremmo, col suo succo di sangue. E poi, sempre fluidamente, l’auto viene capovolta. Diventa pulpito per uno dei sacerdoti, che pronuncia il testo di Claudia Castellucci, un lungo monologo sull’ornamento, riscatto della vita quotidiana.
L’arte ormai non tocca più il cuore delle persone, ha perduto la capacità di scaldarci, di sfiorarci. Per essere fruita, ha bisogno di musei, luoghi alieni da costruire: l’artigianato è creazione: riscatta la nostra vita di tutti i giorni dall’umiltà, la scalda, la rende vivibile e amabile. L’ornamento nasce prima dell’arte, come levigare una pietra solo per sentirla liscia tra le dita è già infinito ornamento e piacere.
Il sermone indica la strada per creare un nuovo mondo: l’auto capovolta va in moto da sola: e la liturgia si scioglie. Liberi dei paramenti bianchi, coi corpi nudi imbrattati di verde vivo, i performer abbandonano la scena: la libertà, si è detto, è andare da qualche parte. E termina così un rito estremamente Castellucci, incisivo e artisticamente affascinante, seppure solcato da evidenti richiami a estetiche diverse e diverse sperimentazioni e percorso da un movimento, da un bisogno vivo di libertà.
Può essere il tentativo di non lasciarsi chiudere nella gabbia gloriosa del proprio stile: la ghirlanda di Galasso, cerchio di ferro e corona: un tentativo ammirevole, che evidentemente è in atto. Lo dimostra anche il blocco monumentale del sermone, scagliato verso il pubblico come il cerchio d’oro che il performer regala alla spettatrice in prima fila, affascinante e ingombrante, simbolo di un sintomatico squilibrio che è sicuramente una chiave da non trascurare. Il suono del silenzio tipico di questo teatro, l’invito misterico all’ascolto del battito interiore dello spettacolo come fossimo stati inghiottiti, minuscoli, da viscere divine, rivela in questo ultimo lavoro la percezione del regista all’urgenza del rientro della parola in scena. Viva, mitica, etica, e in grado di toccare profondamente la nostra pelle, il nostro sguardo, il nostro cuore, in un prisma di possibilità che, da questi inizi, rivelerà sicuramente, come sta già apprestandosi a fare, i mille sottintesi di una promessa infinita.
INFO:
La vita nuova di Romeo Castellucci
Concezione e regia: Romeo Castellucci Testo: Claudia Castellucci Musica: Scott Gibbons
Con: Sedrick Amisi Matala, Abdoulay Djire, Siegfried Eyidi Dikongo, Olivier Kalambayi Mutshita, Mbaye Thiongane
Assistenza alla regia: Filippo Ferraresi Sculture di scena ed automazioni: Istvan Zimmermann, Giovanna Amoroso – Plastikart studio Realizzazione costumi: Grazia Bagnaresi
Direzione tecnica: Paola Villani Tecnico del palco: Andrei Benchea Tecnico della luce: Andrea Sanson Tecnico del suono: Nicola Ratti Equipe tecnica in sede: Eugenio Resta con Carmen Castellucci e Daniele Magnani Responsabili di Produzione: Benedetta Briglia e Giulia Colla Assistente alla produzione: Caterina Soranzo Promozione e distribuzione: Gilda Biasini Amministrazione: Michela Medri, Elisa Bruno, Simona Barducci Consulenza amministrativa: Massimiliano Coli Fotografo di scena: Stephan Glagla Riprese video: Luca Mattei
Produzione esecutiva: Societas In coproduzione con: Bozar, Center For Fine Arts (Brussels), Kanal – Centre Pompidou (Brussels), La Villette (Paris) In collaborazione con: V-A-C Foundation L'attività di Societas è sostenuta da: Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo, Regione Emilia Romagna e Comune di Cesena
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