TITO/GIULIO CESARE @ Teatro Argentina: Dittico d'autore

Il Teatro Argentina ci prepara da subito (sull'uscio) a tanta bellezza: basta solo aggirarsi furtivi tra i suoi anfratti per rubare e portare con se una scorta di immagini e sensazioni che allevieranno i giorni a seguire lo spettacolo. E tutto senza avere commesso delitto alcuno. Il 7 maggio ha debuttato la messa in scena di due riscritture originali da Shakespeare: TITO/GIULIO CESARE (*).
TITO
 è un lavoro di Michele Santeramo (che abbiamo visto a Firenze al Teatro Era) per la regia di Gabriele Russo (già regista de IL GIOCATORE visto al Teatro Storchi)
GIULIO CESARE, scritto da Fabrizio Sinisi (apprezzato da Gufetto come autore già ne I PROMESSI SPOSI) per la regia di Andrea De Rosa.
Sul palco un folto numero di attori dà voce al testo rispolverato e rinnovato.Ultima replica il 12 maggio.

Il primo atto unico è Tito. Il regista ci toglie l'effimero piacere, in questo articolo, di potere esordire con “al levarsi della tela…” perché il palco e la sua scenografia si denunciano da subito al pubblico appena si fa sala. Nessun indugio, nessun fiato sospeso. E' tutto lì. C'è poco e stupisce comunque. Lo stile è essenziale e moderno. C'è una poltrona da capobranco che campeggia sulle tavole: attende Tito, proprio come noi. C'è insieme a quell'attrezzeria rada, lo scomodo gocciare di materia informe, almeno sino a lì. Poi si vedrà. E' un preludio. E' un riverbero: come un eco che arriva alla lontana ed ha la stessa forza e gravità di un messaggio da rivelare. Una verità scomoda ben custodita anzi occultata. Suona e si muove fluido un valzer allegorico di oggetti tra soffitto e palco. Emergono d'improvviso in batteria sul proscenio i corpi plastici dei personaggi anzi degli attori, immersi dentro un'intensa luce blu cobalto. E' metateatro dato che si viola la regola: l'attore è rivolto al pubblico e saluta da subito. Quello che è la fine diviene l'inizio. La clessidra del Teatro e del tempo è capovolta sulla cuspide. Il pubblico è confuso e curioso. Ed arriva Tito con la sua divisa consunta di generale: torna dalla guerra e nonostante tutto, è ancora lui: sopra tutti. Lo vogliono sovrano. C'è come sempre la lotta della supremazia, iniziano ad agitarsi le forze contrapposte della comunità per ottenere quello scettro che vuol dire tutto o niente. C'è nell'originale “Tito Andronico” e dunque anche qui, un eco di tragedie greche: sentiamo Ovidio e Seneca, ma riflette sul palco anche l'ombra mitologica di Eschilo e del suo stanco Agamennone che torna svuotato dalla battaglia. Anche Tito desidera la normalità dell'uomo stanco di sostenere pesi e colonne traballanti. Incerte.

Santeramo snellisce il personaggio dalla sua retorica epica perché qui depone l'armatura e torna uomo: desidera quel tempo che ha perduto a spasso per i campi di guerra a mietere morte. Uomo dunque con vizi e virtù visto che adesso si accorge che il peso più grande per ognuno è la famiglia. C'è recupero temporale. C'è istanza urgente di felicità, che s'appende e attecchisce solo sulle spalle di chi è senza pensieri. Scevro di responsabilità e leggero come l'aria che può respirare. Tito guarda i giovani e ne ammira la loro inestimabile ricchezza: sono loro che possiedono più tempo e quindi il futuro. Non è merce di scambio. Si può solo rimanere a guardare. E di nuovo accusa la guerra meschina che priva del tempo e della vita. Tempo equivale a fine, a caducità dell'essere vivente provvisorio in questa superficie terrena, ed è qui che emerge dal coro (ai bordi della poltrona dell'eroe) la sete atavica per la convenienza, il potere da strappare con ogni arma compresa la seduzione, la lussuria e la prevaricazione dei corpi sulla ragione. Si toccano tutte le corde e i livelli: si orchestra persino lo stupro. Si sente l'umido del fondo estremo e l'essere umano si macchia mani e braccia del sangue e della colpa ben visibili allo spettatore, come voluto da Russo. Si riduce in fin di vita la giovane figlia di Tito, le viene tolto tutto: dignità, mani e lingua perchè non parli, eccetto la vita. Non viene concessa la morte: si punisce la vittima lasciandola sopravvivere, privandola dell'unico sollievo e residuo desiderio. Tito DEVE. C'è sempre un gran da fare nella sua vita. I figli gli rinnovano la tragedia della vita con puntualità. E intanto c'è odore acre di sangue tutt'intorno, e lui tenta di tapparsi il naso e gli occhi. Non può o vuole vedere quella figlia che gli implora aiuto. E' di nuovo metateatro quando le chiede di calibrare il lamento come un regista alla sua attrice. Cerca, Tito, di nuovo quella normalità. C'è nel suo conflitto il valore della sopportazione ed il suo peso che schiaccia inclemente l'uomo. Adesso quel gocciare è chiarificato: è tutto il sangue della vendetta che l'uomo lascia scorrere per placare le offese reciproche. Tito Andronico è la prima tragedia di Shakespeare e la più sanguinaria. C'è un fiume di atrocità e arti mutilati. C'è la vendetta: all'omicidio si risponde con l'omicidio, e qui ci ricorda Ecuba e quel fiume di figli ammazzati.

Riscrittura di una tragedia classica in chiave moderna. Già Shakespeare si era ispirato alla Metamorfosi di Ovidio dell'8 d.c. Nella riscrittura di Santeramo il senso rimane seppure si prendano frammenti dell'originale; ma l'operazione drammaturgica di sintesi è annunciata già nella contrazione del titolo, quindi non c'è reticenza. C'è modernità nel racconto dell'autore e nella regia di Russo, ed è questa la dimostrazione, una delle tantissime, che l'uomo non cambia e conserva i suoi conflitti atavici senza poterli o saperli risolvere perché, qui si dice, non ci può essere pace dato che ognuno difende qualcosa.

Le luci sono decise. Giuste. I tagli usati spesso dividono il palco in più parti come linee parallele dove i personaggi rimangono confinati o reclusi. C'è uno sprazzo conico d'umanità: le mani attraversano quei fasci di luce e mondi contrapposti; ma poi tutto rimane dentro la sfera intima. Non ci sono passaggi. Non c'è empatia tra le figure. Il messaggio della solitudine è ben palesato.

Gli attori qualche volta peccano di potenza. Trattengono tutti l'esasperazione che invece necessita di picchi anche striduli in occasioni così estreme, spesso surreali. Martina Galletta (Tamora) rimane tiepida a livello di interpretazione alla notizia del figlio perduto o la scoperta degli ingredienti di quel macabro banchetto fatto delle carni macinate di altri figli. La dizione non è giusta: di solito un lavoro classico la richiede se non ha ambientazioni regionali palesate e contestualizzate. La pièce è coraggiosa e a nostro avviso ben riuscita.

(*) Gli spettacoli sono nati nell’ambito del progetto Glob(e) al Shakespeare, per il Napoli Teatro Festival, ideato da Gabriele Russo e riconosciuto dall’Associazione Nazionale dei Critici con un Premio come “migliore progetto speciale” 2017.

Giulio Cesare è il secondo atto unico riveduto da Sinisi. Le maestranze lavorano e apparecchiano la scena senza pudore, a sipario aperto, sotto anzi davanti gli occhi curiosi del pubblico che intanto si gode l'intervallo: si preannuncia forse l'uso reiterato del metateatro? L'atmosfera è metallica. Ispida. C'è la pienezza immensa del tiranno del Rubicone che viene svuotato dalle pugnalate più famose della storia: punito per la sua sfrontatezza. Prende forma una sagoma di uomo: sembra dapprima un Cristo velato ma è Cesare. Occorre sotterrare il corpo ed il ricordo. Quando inizia la pièce quel muto residuo umano è iridescente nella notte del palco.

 

 

Dalle botole emergono atrofici i tre congiurati che hanno ucciso Giulio Cesare: Bruto, Cassio e Casca.
I tre difensori della repubblica si interrogano sul loro gesto: è una dialettica sui generis espressa nei monologhi di ciascuno. Il dialogo c'è comunque. “E' giusto uccidere il Tiranno?”. L'impresa si fa ardua quando quel Tiranno ormai è Roma stessa: l'identificazione è irreversibile. E poi si chiedono “La tirannia più lieve quando il Tiranno ama il suo popolo?” C'è un rimbalzo di domande e dubbi tra palco e platea, e l'eco si fa forte se si pensa che ai bordi di quel Teatro, ma anche sopra sino al cielo e sotto sino alla terra: c'è Roma davvero. “Bisogna trovare la direzione della maggioranza in quest'epoca priva di grazia”. E ci sembra una frase attuale e in bocca ai tre ha un sapore nuovo e antico. Esce dal sottosuolo dell'Argentina, un fiume di parole: è una profusione che non s'arresta e che stordisce la platea e la informa della natura cruenta dell'uomo in perenne guerra col simile per difendere, conquistare o preservare il POTERE. Ed è questo il fil rouge che lega i due atti unici in questa unica serata. C'è una polvere di tensione innescata dallo stoppino piccolo e devastante dell'atomica, alla quale Sinisi allude. Qui c'è il segno evidente della riscrittura ma che trae elementi da quella brutta attitudine dell'uomo di fare la guerra. Bisogno di conflitto con gli altri perché in conflitto con se stesso. E nel tavoliere della guerra ci sono nuove armi devastanti: il gas nervino, quel vapore letale che brucia ogni cosa e toglie ossigeno dall'aria e dai polmoni. La vita si affievolisce sino a sparire come le carni. Non c'è clemenza. La nuvola silenziosa, senza avviso, uccide donne e bambini. E uomini. Tutti impreparati. Sorpresi nel pieno della vita. La soluzione c'è, ma la lasciamo alla sorpresa del pubblico.

Anche qui come in Tito ci sono brevi rimandi all'opera di Shakespeare. C'è quel memorabile monologo e orazione di Marco Antonio al funerale di Cesare che scuote l'opinione pubblica. Ma non c'è lo spettro di Cesare e tanti altri elementi voluti dal bardo. La battaglia di Filippi viene rievocata e diventa un tormentone da festival.

Luci perfette. Tagli evocativi. Musiche intonate alla riscrittura. Pièce ben riuscita. Gli attori sono bravi e potenti nel trasmettere il senso che percorre la messinscena.

Fino al 12 maggio al Teatro Argentina

TITO/GIULIO CESARE
2 riscritture originali da Shakespeare
di Michele Santeramo/Fabrizio Sinisi
dirette da Gabriele Russo/Andrea De Rosa
scene Francesco Esposito – costumi Chiara Aversano – luci Salvatore Palladino, Gianni Caccia – sound designer G.U.P. Alcaro

Produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini

TITO
di Michele Santeramo regia Gabriele Russo
con Andrea Bancale Alabro; Roberto Caccioppoli – Bassiano; Antimo Casertano – Lucio, Fabrizio Ferracane –Tito;

Martina Galletta – Tamora; Ernesto Lama – Saturnino; Daniele Marino – Demetrio; Francesca Piroi – Lavinia;

Daniele Russo – Aronne; Filippo Scotti – Marzio;Andrea Sorrentino – Chirone; Rosario Tedesco – Marco

GIULIO CESARE
di Fabrizio Sinisi regia Andrea De Rosa

con Nicola Ciaffoni – Casca; Daniele Russo – Cassio;Rosario Tedesco – Antonio; Andrea Sorrentino –Bruto

 

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