Dal 14 al 16 dicembre, presso il Teatro Libero di Milano, in scena un piacevole spettacolo diretto dal giovane Nicola Alberto Orofino, diplomato alla Scuola del Piccolo Teatro e temprato dalle molteplici collaborazioni con personalità di spicco quali Luca Ronconi, Massimo Popolizio e Franco Branciaroli.
A monte una domanda tanto ovvia quanto irrisolta: chi era davvero quel celebre drammaturgo inglese rispondente al nome di William Shakespeare? Arduo ricostruirne un profilo e stabilirne un’identità globalmente riconosciuta e condivisa: si sostiene che abbia insegnato a comprendere la natura umana nelle sue sfaccettature più recondite, lo si studia in ogni dove come grande uomo di teatro, si spendono fior fior di analisi sulle sue opere, ci si prodiga per preservarne l’immortalità di personaggio e lo si mette in scena ancora oggi escogitando forme sempre diverse, sia attualizzandone i testi sia ricostruendone minuziosamente la cupa atmosfera elisabettiana.
Da secoli si è incessantemente contemplato, indagato, meditato e speculato attorno al suo personaggio, evidenziandone ogni volta un’altra sfumatura e ricevendone nuovi stimoli. La ricerca dell’identità ha lasciato man mano posto allo sviluppo della guggestione: pochi i dati certi attinenti alla sua sfera personale ed emotiva, nonostante chiunque possa associare al suo nome titoli altisonanti come Otello e Amleto o poter affermare di aver visto almeno una volta una sua opera a teatro.
Attorno all’identità universale di questa figura, che a tutti appartiene e a cui tutti a nostro modo apparteniamo, si dipana il gioco metateatrale di Francesco Foti e Francesca Vitale. Sul terreno scivoloso della sfera intima del Bardo ha inizio una recherche di tutta quella sommessa dimensione casalinga e di quell’intimità quotidiana nascosta dietro le quinte perché offuscata nel corso dei secoli da una retorica ampollosa. Due attori siciliani amanti del Bardo si dilettano a immaginarlo come un loro conterraneo – d’altra parte dove sono ambientate opere come Molto rumore per nulla, Romeo e Giulietta e La bisbetica domata se non in Italia? – con una vita comune, una moglie attenta e premurosa che lo rimprovera per aver sbandierato questioni di coppia, ma lo aiuta pazientemente nella traduzione in inglese di opere scritte in siciliano. In fondo stanno raccontando una storia universale: una grande donna dietro un grande uomo, una coppia che nonostante qualche incidente di percorso si supporta e si sopporta fra spassosi battibecchi, buffi alterchi e vivaci zuffe di coppia.
Parrebbe quasi di non essere a teatro tanto l’atmosfera è conviviale: gli attori stessi accolgono calorosamente il pubblico in prima persona, lo invitano a riscaldarsi con un po’ di vino e propongono di trattenersi alla fine per una chiacchiera informale. Non c’è sospensione della vita, non si avverte la consueta scissione tra palco e platea: conversando familiarmente, gli attori aprono uno squarcio, se non veritiero verosimile, sulla vita del drammaturgo.
Spigliati e frizzanti, agli occhi degli spettatori appaiono come due cabarettisti allegri e squinternati che fra un’inflessione e l’altra offrono una brillante e raffinata performance. Quello che nel prologo viene proposto dai due attori come “improvvisazione” è in realtà un canovaccio orchestrato in modo certosino, studiato ad hoc per essere gustato e compreso a prescindere dalla formazione dello spettatore. Citando sapientemente passi più o meno noti del drammaturgo inglese, qui naturalizzato italiano, lo spettatore viene docilmente introdotto nell’universo shakespeariano: ad esplicare rigorosamente ogni citazione c’è un giovane, bonaccione e un po’ petulante dottorando di letteratura inglese interpretato da Daniele Bruno, che siede in mezzo al pubblico. Nessuna finalità meramente didattica e nessuna pretesa di accademismo: lo spettacolo offre un punto di vista da accogliere con spensieratezza ma su cui riflettere, un approccio del tutto sui generis attraverso il quale leggere una figura tanto sfuggevole ed evanescente. Mai viene minata l’aura di misticismo e inesplicabilità che la caratterizza: la si vuole solo “democratizzare”, riportare ad una dimensione popolare senza sminuirla, ponendola in un contesto quotidiano senza mai banalizzarla. Sugno o non sugno è una pietanza leggera da gustare, un gradevole divertissement mai dimentico del ragguardevole patrimonio artistico con il quale spensieratamente si diletta.