STORIA D'AMORE E DI CALCIO @ Teatro Era. Quel dappertutto Sud che ferisce e commuove

Michele Santeramo apre la stagione del Teatro Era con STORIA D’AMORE E DI CALCIO, produzione Fondazione Teatro della Toscana, un nuovo allestimento in prima nazionale, in occasione dei festeggiamenti per il decennale del teatro di Pontede,a che veniva inaugurato il 21 ottobre 2008. Una cornice di eventi dall’11 ottobre fino al 4 novembre che vede la proposta di produzioni e prime tra cui segnaliamo anche YORICK. Un Amleto dal sottosuolo con Simone Perinelli di Leviedelfool, NEL LABIRINTO. Discorso sul Mito di Vittorio Continelli e il ritorno sulla scena dopo il debutto dello scorso anno di QUASI UNA VITA di Roberto Bacci.

Nella piccola sala Ryszard Cieslak, il ridotto del Teatro Era, ci accoglie la scarna scena dello spettacolo: un attore e un musicista con alle spalle uno schermo su cui scorrono le immagini evocate dalla narrazione pacata e asciutta di Michele Santeramo.

STORIA D’AMORE E DI CALCIO è il racconto di un ipotetico e singolare campionato mondiale di calcio clandestino della malavita giocato tra le nazionali di immigrati, compresa l’Italia, per determinare quale sia la comunità che possa comandare per un anno sulle altre per la conduzione dei propri affari illeciti. Nelle vicende delle squadre calcistiche si intreccia la storia d’amore del protagonista annegato negli occhi di una giovane ragazza indiana di cui si innamora.

Santeramo legge ed intepreta il suo scritto tenero e doloroso dietro al leggio, che sottolinea il distacco commosso con cui propone agli spettatori questa storia. Le parole sono accompagnate ed esaltate dalla musica originale di Sergio Altamura, che arpeggia la chitarra come in una danza, e dai video e foto di Vito Palmieri, di una Italia del passato, con i colori seppia delle immagini degli anni sessenta: un campetto coi bambini che si tirano il pallone, incontri di volti sfuocati, sguardi, abbracci, strade vuote dai confini incerti, mare, sabbia, auto che non si vedono più. Immagini e note sono un sottofondo leggero che accarezza il racconto, non lo invadono mai, a volte ce ne dimentichiamo tanto sono coerenti e delicate.

Lo spettacolo, seppur statico nella scena, attraversa ritmi diversi. Si passa attraverso la fermentata rissa di piazza tra diverse comunità, iniziata tra un libico e un polacco, per finire ad aggregare a suon di cazzotti libici, marocchini, polacchi, italiani e tutte le comunità presenti nel paese, ciascuna pronta a difendere l’onore di patria; si approda all’incanto estatico dello sguardo tra i due giovani innamorati incontrati al pozzo a prendere l’acqua; seguiamo le concitate e ironiche cronache delle azioni calcistiche delle nazionali clandestine, dove non mancano neanche i cinesi, i brasiliani o i pakistani, che di certo non avrebbero l’onore di gareggiare nei gironi del mondiale ufficiale. Seguiamo divertiti la ricerca vana di un arbitro del campionato proveniente dalla Svizzera, per garantirne la neutralità, o l’allestimento surreale del campionato clandestino dove perfino le transenne per delimitare il campo o le porte da gioco sono rubate dalla malavita locale.

Michele Santeramo si conferma con questo testo, di cui non perdiamo una parola, un sapiente autore, meritato vincitore di numerosi premi per la drammaturgia (Premio Riccione 2012, Premio ANCT 2013, Hystrio e finalista all’UBU per la migliore novità italiana e ricerca drammaturgica nel 2014). Questo teatro di narrazione ben costruito, ben armonizzato con i comprimari musica e video, ci ricorda uno dei padri del teatro civile, Marco Paolini che ne Gli Album intreccia la passione per il rugby con la storia del nostro Paese, ambientata nel profondo Nord Est tra Padova e Belluno (poco diverso dal Sud di Santeramo), dove le vicende sportive sono specchio della vita, sono romanzo di formazione nei valori e nel rispetto reciproco. Niente di più lontano dal calcio affaristico dei milioni di euro dei calciatori da copertina dei tabloid, ma un gioco, serio tanto da determinare l’egemonia della malavita, un rettangolo polveroso di azioni interiori, immagine artistica per una indagine intima della sfida con se stessi, del ricatto esterno e del riscatto morale. Come nella canzone di De Gregori il calcio di rigore è simbolo della crescita umana nella Leva calcistica della classe ’68, col sole che illumina il campo di pallone, le scarpette di Nino, ma soprattutto il coraggio, l’altruismo e la fantasia.

Con dolcezza la voce di Santeramo ci guida lenta, come una palla che procede verso la porta a “foglia morta”, un iconografico elogio della lentezza che non appartiene più a questo mondo frenetico in quel paesino non meglio identificato del Sud, quel dappertutto Sud che non fa notizia, sud di scantinati, di terre sprofondate, di portafogli vuoti, e tanta miseria, sia delle tavole che delle povere anime che lo abitano. Il Sud odiato, lacerato, da cui necessariamente fuggire, per averne un attimo dopo nostalgia. Le origini pugliesi dell’autore ed interprete sono nell’atmosfera per tutta la durata del racconto, sottolineate dal leggero accento dialettale della narrazione e dal sorriso ferito del volto. Non è un Sud geografico, ma una condizione umana e sociale, l’effetto delle relazioni di potere e denaro. Nel dappertutto Sud di cui ci parla Santeramo si lotta nella polvere di un campetto parrochiale per contendersi la malavita, la migliore miseria. Il Sud è tutto ciò che c’è di primitivo e arcaico nella memoria collettiva e nella storia di vita di ciascuno di noi. Come scriveva Paul B. Preciado su Liberation il nord e il sud non sono luoghi, ma il risultato di un’epistemologia binaria che oppone alto e basso, spirito e corpo, testa e piedi, razionalizzazione ed emozione, teoria e pratica. Abbiamo ciascuno di noi il nostro Sud, con cui ascoltiamo le parole di Santeramo: è il nostro dolore, il sopruso subito, l’ingiustizia a cui ci siamo rassegnati. È lo stesso Sud violento e disilluso raccontato da Oscar De Summa nella Trilogia della Provincia che fa sentire allo spettatore il dolore, la ferita aperta, non rimarginata, personale e collettiva.

STORIA D’AMORE E DI CALCIO è un racconto sociale del nostro tempo e del nostro Paese sempre più intollerante, fatto di parole di odio, di segregazione e razzismo, capace di escludere dei bambini dalla mensa perchè stranieri, che saluta come una vittoria il disumano slogan “chiudiamo i porti”, che alimenta in modo strumentale e criminale la paura costante dell’altro come un nemico. Il campionato è un esempio di integrazione: la povertà accomuna tutti. Così le storie degli immigrati diventano storie anche italiane, vicende comuni: nessuno è diverso nel racconto di Santeramo.

STORIA D’AMORE E DI CALCIO trascina il nostro pensiero dall’onirico paesino di un Sud metafisico, fino all’attuale e concreto Comune di Riace, modello d’accoglienza e integrazione, cittadina calabrese al centro delle cronache per le dolorose e controverse vicende del sindaco Mimmo Lucano. Commovente il legame con il reale attuale di questa storia ambientata negli anni Sessanta per darle innocenza e ingenuità, che ribalta la retorica fascista di negazione dei diritti civili ed umani a cui siamo tutti sottoposti, e il cui rischio più grande è l’abitudine, come se fosse normale.

«In questo dappertutto Sud conviene essere giganti o ciechi»

Info:
STORIA D’AMORE E DI CALCIO
Di e con Michele Santeramo
Regia cortometraggi Vito Palmieri
Musiche originali Sergio Altamura
Montaggio corti Paolo Marzoni
Assitente al montaggio Clara Pellizzi
Sala Montaggio Maxman Coop
Progetto Video Orlando Bolognesi
Costumi Chiara Fontanella
Produzione Fondazione Teatro della Toscana
Foto di scena di Nico Bruchi

Teatro Era, Pontedera
14 ottobre 2018

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