STATO TRANSITORIO @ Teatro Povero di Monticchiello: uno sguardo indietro rivolto al futuro

Per il 53° anno consecutivo l’autodramma della gente di Monticchiello ha animato la storica Piazza della Commenda per rinnovare la tradizione del cosiddetto Teatro Povero. Un aggettivo che ben si confà alle risorse economiche messe in campo ma che tradisce invece quella ricchezza culturale, sociale e civile che ogni anno prende vita nelle voci e nei gesti degli attori sul palco. Una genuinità che nuovamente si è espressa in STATO TRANSITORIO, testo che per la prima volta non si interroga solo sul futuro di un paese ma della sua stessa tradizione più popolare. Quel teatro che dal 1967 ha consentito a Monticchiello di non diventare uno dei tanto borghi fantasma destinati allo spopolamento e alla speculazione.        

Nell’ambiente militare il battente ritmo di una marcia scandisce il passo implacabile che solo ad un secco comando muta direzione senza nessuna consapevolezza della destinazione. Ma cosa succederebbe se ad un certo punto la marcia si interrompesse e il soldato si accorgesse di non riconoscere la propria meta? Da questo stesso senso di smarrimento sono animati i personaggi dell’ultimo autodramma della Gente di Monticchiello. Dopo un percorso pluridecennale fatto anche di cambi di direzione ma sempre con un passo deciso e irrefrenabile, i dubbi sul futuro di un progetto così corale rappresentano il filo conduttore delle vicende di Stato transitorio, testo scritto ed interpretato dagli stessi abitanti-attori.

Così come tutti i percorsi di vita fluiscono, transitano, in una provvisorietà che inevitabilmente ci spaventa nella consapevolezza che si concluderanno, allo stesso modo una transizione può costituire un punto di svolta, quel cambiamento che invece prolunga un’esistenza ed apre ad un futuro in chiave evolutiva. Tra questi due binari sembrano viaggiare gli abitanti del borgo che ai piedi di quel palcoscenico calcato già 52 volte si chiedono se la fatica del teatro, di un teatro sempre impegnato e preoccupato del presente, valga la pena di essere rinnovata nel tentativo di salvargli la vita ai limiti dell’accanimento terapeutico (“Ci si arrabatta ma non succede niente”). Adagiarsi sugli allori già conquistati cercando infinite varianti ad una composizione in cui i colori restano sempre gli stessi ed il numero delle possibili combinazioni di sfumature non è infinito, può annebbiare il futuro. Se poi ad accorgersi di questo sono gli altri il gruppo si chiude in se stesso percependo un’insopportabile ingerenza per cui in fondo “mica si può garbare a tutti”.

Solo un fenomeno disturbatore può scardinare un equilibrio stagnante e così per la prima volta negli ultimi anni prorompe all’interno di un autodramma il personaggio che con uno sguardo esterno può aprire gli occhi e squarciare quel cielo di carta di pirandelliana memoria in maniera da diradare le nebbie e rischiarare le coscienze. Con tono insinuatorio e fortemente allusivo fa il suo ingresso in scena una giornalista, donna di città che rivolgendosi agli attori sfiduciati e nervosi sembra fomentare quel malcontento fatto fondamentalmente di timore e di inadeguatezza. Laddove si pizzicano le corde più tese e scoperte, la rottura può provocare quella nota dissonante che distrae dal ritmo ripetitivo della marcia, appunto, per riconquistare la consapevolezza della realtà intorno e riscoprire un orgoglio oramai rimasto seppellito sotto le assi del palcoscenico. E proprio da lì i protagonisti sapranno ritrovare la forza della solidarietà e di quel legame con la terra e il territorio per superare ogni incertezza (“capaci di andare avanti anche a graffi”).

Immancabile ma meno nostalgico lo sguardo rivolto al passato che caratterizza la seconda parte dello spettacolo in cui si tornano a narrare episodi della vita contadina che si intrecciano, altra novità sintomatica di una transizione in atto, con le vicende della evocata marchesa Iris Origo, ricca possidente che si è contraddistinta per la propria munificenza proteggendo, tra gli altri, molti bambini dei poderi intorno durante i bombardamenti del ’44. E a dimostrazione di questa più ampia diversità di vedute fa il suo ingresso sul palco anche il riscaldamento globale che, seppur declinato in chiave locale, tanto da trasformare Greta Thunberg in una “citta (ragazzina) straniera”, simboleggia la necessità di aprirsi e di evolversi in una chiave che non è tradimento o rinnegazione dello ieri ma bisogno del domani.

Con questo spirito e trascinati dalla commistione vincente di rinnovato orgoglio per il proprio passato e di entusiasmo delle nuove generazioni (molti i bambini “scritturati” che, dato il grande numero, si sono susseguiti a rotazione nelle varie repliche), finalmente i protagonisti possono tornare ad essere attori sopra il palco, a calcare quel palcoscenico che aveva perso le sue fondamenta, ritrovate grazie alla collaborazione tra nuovi e vecchi in quell’accettone che ancora oggi, come in passato, è riuscito ad unire i membri di una comunità (“non sei tu che lo prendi ma io che te lo do”) e non solo a distruggere.

Come ogni anno la gente di Monticchiello non ha deluso le aspettative di un pubblico che si è saputa conquistare anno dopo anno grazie alla propria spontaneità e ad un impegno che per molti si rinnova estate dopo estate. E particolarmente apprezzabile è stata la serietà con cui nella replica cui abbiamo assistito gli attori hanno affrontato la lunga interruzione a metà spettacolo dovuta ad un incidente in platea, fortunatamente finito bene. Pur fatta di un vocabolario più italiano e meno toscano, la recitazione non è rimasta priva di un dialetto che nelle sue sonorità tradisce la sua natura letteralmente terrena come se le parole fossero uscite da quei solchi nella terra dura che molti dei protagonisti tante volte hanno scavato. E così le pene che nascono e che affliggono il cuore non possono che “aggomicciolarsi” intorno ad esso imprigionandolo in un bisogno di estremo realismo che spesso impedisce di alzare lo sguardo e portarlo oltre. Stavolta gli attori, obbligati dalla loro posizione ai piedi del palco, hanno dovuto recitare da una diversa prospettiva e comunque sono riusciti a dimostrare un invidiabile ed inestimabile spirito di comunità nella contemporaneità degli egoismi social.

All’uscita dalla piazza abbiamo la nitida consapevolezza di aver assistito davvero ad un autodramma che rappresenterà una transizione, una metamorfosi e magari una evoluzione in una direzione che ancora non ci appare chiara ma le cui premesse sono molto promettenti. Senza rinunciare alla coralità e al suo passato, la gente di Monticchiello ha dimostrato che è necessario mantenere sempre attento lo sguardo verso il futuro perché quello stesso passato non diventi zavorra ma esperienza. Un’esperienza che possa gonfiare le vele di un’imbarcazione pronta a salpare su cui tutti gli abitanti del borgo sono a bordo e sulla quale, in fondo, ci sentiamo orgogliosamente anche noi parte dell’equipaggio a servizio di una comunità.

Info
STATO TRANSITORIO Autodramma della gente di Monticchiello
foto di Emiliano Migliorucci

Piazza della Commenda, Monticchiello (SI)
10 agosto 2019

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