SOMETHING STUPID @Materia Prima 2021. Da dove si riparte?

SOMETHING STUPID, in scena al Chiostro Monumentale di Santa Maria Novella, il 16 di settembre, con Fausto Paravidino, all’interno della rassegna di teatro contemporaneo Materia Prima 2021, a cura di Murmuris “non è uno spettacolo teatrale”, “non è cabaret”, “non è un monologo”. Non è.

A cura di Sandra Balsimelli e Alice Capozza

Teatro senza maschere

Esordisce così l’attore, in scena senza costumi, né scenografia, con l’unica enigmatica compagnia di un pupazzo a forma di scimmia (un orango?), seduto su una sedia di fronte al pubblico. Paravidino ci spiazza così, col suo raffinato sarcasmo e un’apparente ritrosia da palcoscenico, incarnando il timore e l’esitazione di un attore senza copione, senza appigli, senza maschere dietro cui nascondere. E’ lì davanti a noi e improvvisa. Improvvisa uno scambio con il pubblico, inizialmente scettico poi via via sempre più divertito dal gioco sottile imbastito sotto i suoi occhi e, a detta dell’artista, particolarmente collaborativo e deciso a dargli credito (incredibile a vedersi, effettivamente, fiorentini più docili del previsto!). Ci sono voluti quasi due anni per tornare a teatro. E ora come si fa? Da dove si riparte? Cosa narrare, cosa può aver senso rimettere in scena? Dopo quello che abbiamo vissuto come collettività non è possibile ripartire da dove eravamo, non senza domandarci chi siamo diventati, dopo gli stucchevoli e abusati proclami degli “andratuttobenisti”.

Le domande di Paravidino

E allora Paravidino ci mette davanti allo specchio, con spietata e divertente lucidità, a guardare le idiosincrasie cognitive e semantiche a cui il nostro mondo sembra essersi consegnato senza un dubbio, mostrando il folle cortocircuito a cui la comunicazione umana è andata incontro. Chi sa non riesce a dimostrare la bontà del proprio ragionamento, chi non sa (o è accusato con violenza di non sapere) sembra capace di rendere conto del suo si o del suo no perché si è informato, ha fatto ricerca, oppure si spalleggia dietro alla solidarietà di chi si sente escluso dai difensori della verità ufficiale, sdegnosamente chiusa nel suo rifiuto di rivedere i propri presupposti. Siamo costretti a rinegoziare significati condivisi perché non tutti sembriamo più vedere la stessa realtà.

“Tutti d’accordo che questo qui è un orango?” Ci chiede l’artista. E noi assentiamo cauti, dietro un sorriso divertito e scettico. “Mi è andata bene! Spesso non sono tutti d’accordo!”. E da dove si riparte se le nostre rappresentazioni del mondo sono andate a divergere tanto da rendere il dialogo tra esseri umani, sui social, sui media e dal vivo, una rissa pericolosa? Forse dalle relazioni. Ma, anche in questo contesto cos’è accaduto? Gli altri sono diventati un nemico, una minaccia, una grande seccatura, tanto che ognuno di noi sogna paradisi disabitati ed elitari – “si stava benissimo non c’era nessuno! – ergendosi a indignato censore di assembramenti di gaudenti in cerca di vita dopo mesi di reclusione.

Diffidenza, cinismo, paura, giudizio, smarrimento di fronte all’incrinarsi di un panorama mentale familiare e condiviso. Questi i sintomi preoccupanti, sebbene dagli effetti esilaranti, che sembrano affliggere il nostro mondo. Un mondo di persone libere che vivono come schiavi, che “amano obbedire al dovere di comandare”, che non trovano il tempo di domandarsi cosa desiderano, non accorgendosi che, mentre tentano di “cambiare vita” è lei che cambia loro. Come uscire da questo grumo di esistenze immerse nel dubbio, in questa umanità boccheggiante e sola, che ha disimparato a tradurre la Babele delle proprie parole le une nelle altre? Forse assumendosi la responsabilità dei propri desideri, suggerisce Paravidino, per non essere più diretti da altro se non dalla propria bussola interiore che illumini la rotta, in un mare di nebbia, senza copione, a malapena con un canovaccio, come l’attore, disposto a correre il rischio di non sapere dove il proprio discorso lo porterà.

Le domande del pubblico

Si esce da questo tuffo nei pensieri che l’artista ci rovescia addosso con l’andamento malcerto e contorto del monologo interiore, colpiti, innervositi perché toccati sul vivo, molto divertiti, con tanti spunti di riflessione e alcune domande che restano, volutamente, senza risposta.  Se l’artista oggi non ha più niente da narrare di così granitico da essere imparato a memoria e compitato in eterno, se il dubbio amletico è ormai la trama di cui è fatta ogni piega del nostro vivere, se l’improvvisazione, disposizione eroica e vagamente metafisica dell’emersione di significati dal vuoto,  è l’unico orizzonte che l’arte può percorrere per tracciare nuovi sentieri, perché siamo rimasti tutti in silenzio davanti alle provocazioni di Paravidino? Perché non abbiamo colto la sfida di interagire con chi ci mostrava l’assenza di senso del nostro dialogare, del nostro catalogare esperienze, dividerci in bolle di sicurezza, in protettivi protocolli di inclusione ed esclusione che diano l’illusione di essere al sicuro? Perché ci fermiamo sempre al piacere da dissolvimento della domanda senza mai correre il rischio di fabbricare nuove risposte?

Forse è proprio da questo salvifico fastidio intellettuale che ci accompagna nel ritorno a casa, con la voglia di trovare qualcosa da contrapporre alla provocazione unilaterale dell’artista, che possiamo ripartire, per evitare che l’arte si frantumi in sbuffi autoreferenziali di accorata denuncia del non-sense quotidiano.  Un fastidio creativo di cui ringraziamo l’autore. Perché ci costringe a pensare e a discutere insieme sul dubbio filosofico se un orango è un orango e se un tavolino è un tavolino. Non perché il risultato sia alla fine così importante – si sembra effettivamente folli a dibattere allo stremo per dare ragione alle proprie ragioni, ci fa notare con ironia l’attore – ma perché il cercare una risposta insieme è la strada per ricostruire la polis, quella di socratica memoria, quella in cui il sapere di non sapere spingeva persone sagge a sentirsi sempre alla ricerca, umili, fertili di riflessione e disposti all’ascolto dell’altro e ad accogliere l’errore e l’errare del pensiero come un regalo, un’opportunità di evoluzione condivisa, non come la miccia dell’ennesima crociata epuratrice.

La speranza è in quelli che ancora hanno occhi per vedere e cuore per agire.  Questi gli spunti emersi da questa serata che non si ripeterà, altri teatri altri luoghi ne vedranno sorgere degli altri, non replicabili come quasi tutto dell’esperienza umana. Noi ne abbiamo fatto tesoro. Anche se nel chiudere non possiamo fare a meno di ribattere, per ritrovato coraggio di dissenso che, no! quel pupazzo di pezza non era un orango! Si apra il dibattito.

SOMETHING STUPID

Una cosa di Daniele Natali e Fausto Paravidino
Questa volta con Fausto Paravidino e basta

MATERIA PRIMA FESTIVAL
Chiostro Monumentale di Santa Maria Novella, Firenze
16 settembre

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