Il 21 e 22 dicembre, al Sala Uno Teatro è andato in scena “Soliloquio di un uomo qualunque”, spettacolo d’esordio per l’autrice Alessia Rocco, regia di Alessia Oteri, interpretato da Paolo Ricchi.
Attraversa lo spazio scenico, affannatamente, arrivando in bocca agli spettatori, il corpo impacciato e goffo di un uomo di mezz’età, che porta su di sé le tracce del tempo. Si scaglia, tirando pugni, contro un sacco da boxe, nero, come neri sono gli abiti che veste.
L’ingresso dell’uomo qualunque e della sua parola sono tempestivi, colgono di sorpresa lo spettatore, bruscamente gettato in un ambiente domestico, privato, che immediatamente si astrae, per il suo minimalismo, diventando proiezione della memoria.
Il sacco da boxe, una panca, una vecchia stufa da cucina, un tavolino con due sedie, un appendiabiti scheletrico da cui pendono giacca, camicia, cravatta, sotto cui è poggiato un paio di scarpe e in fondo, lontana, una bianchissima vasca da bagno: elementi dispersi nel vastissimo spazio scenico che, proprio per questa vicendevole lontananza, riescono a creare ambienti diversi ma compresenti, diventando veri e propri poli d’attrazione, viventi.
L’attore, Paolo Ricchi, si muove consapevole ed agile in mezzo ai suoi relitti di vita e interagisce con ciascuno di essi attivandone la capacità di reminiscenza, rendendone la presenza giustificata, necessaria.
Teatro di parola e di voce. Parola incarnata nel corpo dell’attore, fisica. Prima esperienza teatrale per l’abile penna di Alessia Rocco; l’autrice costruisce un monologo biografico. L’uomo qualunque, racconta di sé, del proprio passato di vita, proponendo al pubblico la sua disperata ovvietà, il suo miserevole “qualunquismo”.
Un racconto di sé strutturato su tre orizzonti di senso.
Il primo livello, il più superficiale parla di un uomo affetto dal classico complesso edipico di stampo freudiano, scaturito dall’assenza materna nell’infanzia di cui finge di ignorarne la gravità. Arriva, adulto, a possedere la madre attraverso la spregiudicata acquisizione di tutti quei modi di fare, quei vizi detestati da bambino, di cui si rende schiavo da adulto. Supplisce, ormai uomo, al vuoto creato dalla madre, incarnandola.
Al secondo livello, il testo, esordio teatrale dell’autrice, si propone di parlare di teatro. L’uomo senza madre, dunque senza radici, senza identità, deluso anche dall’amore femmineo, decide di fare l’attore, il mestiere che consente pirandellianamente di poter essere chiunque senza essere qualcuno. Temi quali “identità” e “soggettività”, ancora roventi nel dibattito critico-accademico teatrale contemporaneo, vengono affrontati nella fenomenologia biografica dell’uomo/attore: la sua straordinaria capacità camaleontica lo costringe ad acquisire una dimensione esistenziale di transumanza, di vagabondaggio.
Ciò gli impedisce legami saldi e durevoli, lo conduce istintivamente a respingere la stabilità. L’extra-ordinarietà dell’arte teatrale richiede necessariamente all’attore una extra-ordinarietà di vita? Qual è il rapporto tra arte e vita?
“Sono diventato come mia madre. La stabilità mi destabilizza.” dice l’uomo qualunque. Gli interrogativi che l’autrice si pone sono frutto di intuizioni azzeccate e acute, forse i modi in cui sceglie di affrontarli risultano un po’ ingenui ma una tale perspicacia al primo esperimento di scrittura scenica, le rende sicuramente merito.
Il terzo livello è quello più interessante: il passato dell’uomo emerge attraverso una carrellata di fantasmi di donna. La madre, cantante swing costantemente assente, lo mette alla luce nel giorno di una Pasqua qualsiasi e lo abbandona alle cure dei nonni, anaffettivi, per inseguire la sua arte. La nonna lo considera un fardello indesiderato. L’uomo bambino cresce in una tenuta di campagna, solo e inascoltato, diventa un “esempio aberrante di spietatezza gratuita”.
“Che sapore senti in bocca? Io quello metallico del sangue.” la prima scazzottata, la prima esperienza sessuale: Olympia, prostituta,“era bella e morbida come la sponda di una nuvola”, come quella ritratta da Manet, ingaggiata dalla nonna per svezzarlo, lo abbandona dopo due settimane: la prima delusione amorosa. La disillusione.
L’incarnazione metaforica della madre nel suo corpo: diventa attore, l’arte si sostituisce alla vita. La moglie, con cui la passione scoppia ai tempi di un’interpretazione nei panni di Cyrano viene chiamata Viola, come quella della Dodicesima notte.
Il matrimonio fallisce, dieci anni dopo, al quarantesimo anno di vita dell’uomo, per l’inevitabilità della sua natura o per colpa della “possessione” materna o perché l’arte non dà più spazio alla vita. Primo tentativo di suicidio: la vasca da bagno che ricorda Seneca o La morte di Marat, l’immersione drogato di sonniferi e la donna di servizio che accorre prontamente, indesiderata. Ancora vent’anni di innumerevoli e vane passioni. Ancora vent’anni di convivenza con il demone della madre che possedendolo gli rinnova un inesorabile senso di fallimento, l’impossibilità d’amare chiunque se non l’arte che pure arriva a detestare ma che ormai è divenuta disperatamente necessaria.
Le donne ritratte, assenti fisicamente, rimembrate dal discorso romanticamente psicotico dell’attore, arrivano ad avere, grazie al testo e alla regia di Alessia Oteri, consistenza di dramatis personae.
Il corpo e la voce dell’attore si fanno strumenti catalizzatori di presenze al punto che queste ombre acquisiscono consistenza di carne. Quando alla fine l’attore si rende conto del suo delirio, scopre di essere solo, accetta consapevolmente la sua condizione “un pezzo di legno secco buttato dentro un camino spento”, dopo essersi vestito, estrae una pistola puntandola contro il pubblico e annuncia il suo suicidio “io non ho paura, sono un epicureo convinto”. Si allontana dalla scena sospendendo il tragico gesto.
L’interpretazione stacanovista rende merito a Paolo Ricchi che pur essendo l’unica presenza in scena consegue l’incredibile scopo di mostrare la sua assenza, riesce cioè a farsi strumento per dare alle donne materialità statuaria: un perfetto gioco al rovescio tra il visibile e le invisibili. Un esordio ammirevole per l’autrice, una regia pulita ed elegante, una prova d’attore decisamente superata: il merito più grande di questo spettacolo sta nell’aver trovato lucidamente la giusta misura ed essersi rapportato realisticamente alle risorse in campo, massimizzandone la resa, senza presunzione.
DALLA NOSTRA AGENDA SPETTACOLI
Prossimamente al Teatro Sala Uno…
Dal 03/01/2017 al 08/01/2017
FINIS AFRICAE
Luogo : Teatro Sala Uno,Complesso pontificio della Scala Santa, Piazza di Porta S. Giovanni, 10
Web
Il benedettino Adso da Melk, ormai vecchio, racconta le vicende di cui fu testimone nel novembre del 1327 in un grande monastero benedettino del Nord Italia dove giunse come segretario del dotto francescano Guglielmo da Baskerville, incaricato di una delicata missione diplomatica…
BIGLIETTO RIDOTTO a 10 euro+2 tessera PER CHI PRENOTA COME LETTORE DI GUFETTO
tel: 06 86606211 dalle 17.00 alle 20.00