Ultimo appuntamento con la rassegna “Classici del secolo futuro. Quattro riscritture senza paura” ideata da Lorenzo Gioielli, Direttore Artistico dell’Accademia Stap Brancaccio e prodotto dalla Sala Umberto. Dopo “Macbeth”, “Le Baccanti” e “Questi fantasmi” è la volta di uno dei più popolari lavori del drammaturgo russo, “Il gabbiano”, andato in scena il 10 e 11 maggio al Teatro Brancaccino.
La sala del Teatro a poco a poco si riempie mentre, a sipario aperto, due attori sono già in scena su un palco quasi completamente spoglio. Gli interpreti attendono il silenzio degli spettatori, le luci si abbassano, la musica scema in attesa che la parola e il gesto prendano il sopravvento, nell’intreccio di una costruzione drammatica in cui “l’autore del crepuscolo” (così definito all’inizio della sua attività di drammaturgo) appare quanto mai calato nella realtà odierna.
Contenuti
Il valore salvifico dell’arte
Gli allievi dell’ultimo anno di corso dell’Accademia Stap Brancaccio portano in scena una pièce sul senso stesso dell’arte e sulle difficoltà di accettazione del nuovo: il dramma di Konstantin Gavrilovic, aspirante drammaturgo, figlio di un’attrice di grido (Irina Arkadina) che gli è stata poco accanto per inseguire i successi e le tournée e che s’accompagna -vedova ormai da molto- ad un giovane amante (autore di talento o mediocre scribacchino?) capace di suscitare l’ammirazione estrema di Nina, la giovane amata da Kostia e che per lui interpreterà il suo primo lavoro. Lavoro deriso da Irina e incompreso dai più. «Questo non è teatro» afferma la madre di Kostia, nonostante quello che il giovane aveva cercato di spiegare introducendo il suo lavoro: «Ho voluto rompere le convenzioni del teatro, andarvi contro». E le affermazioni del giovane aspirante scrittore di teatro sono vicinissime all’originale cecoviano, proprio nella volontà di andare controcorrente, di rompere gli schemi precostituiti: «Hai visto come si fa un teatro? Un sipario, poi la prima quinta, poi la seconda e in fondo l’aria aperta. Niente scenografia.»
Il valore salvifico dell’arte sembra perdere consistenza man mano che la vicenda si dipana e pare attanagliare in una morsa tutti coloro che, in qualche modo, vi gravitano attorno, fino all’estremo gesto del protagonista. L’arte è un’immersione nella sofferenza, un viaggio che accompagna le tappe del proprio intimo dolore, non una via di fuga: non lo è per Nina (che diventerà un’attrice mediocre e si perderà nell’illusione di un amore destinato a sfiorire presto e a lasciarle il doloroso ricordo di un figlio scomparso troppo prematuramente), non lo è per Kostia (che sceglie un’altra via di fuga, quella definitiva, dopo essere diventato uno scrittore), non lo è per Trigorin, né in definitiva per Irina.
Una riduzione in due parti
Gli interpreti, che curano anche la drammaturgia (orientata più a un lavoro di riduzione che di riscrittura), scelgono di ambientare le vicende all’interno di una nave ormeggiata ormai da tempo e non più abile alla navigazione: una cornice chiusa e claustrofobica entro cui le dinamiche dei rapporti tra i personaggi non possono sfuggire al loro destino. Per Sorin, che vorrebbe vederla tornare agli antichi splendori, essa rappresenta il luogo del passato e della nostalgia, dove l’incursione della modernità ha effetti devastanti. Il palco appare nudo, privo di tutti gli elementi atti a caratterizzare la finzione scenica: niente quinte, né fondale, fari visibili al pubblico, perfino i cartelli verdi e bianchi che indicano le uscite di sicurezza; una luce proveniente dall’ingresso per gli attori indica la via di uscita, ma i personaggi non fanno altro che tornare e ritornare, anche quando potrebbero stare lontani.
Nello spazio scenico sono disposti diversi flight case utilizzati come praticabili. Se il progetto di Kostia di scardinare le convenzioni teatrali ben si sposa con una scenografia scarna ed essenziale, che restituisce l'anima pulsante di un teatro continuamente “in allestimento”, non sempre però (soprattutto nel primo atto) gli elementi sono spostati e distribuiti con coerente e logica dinamicità, la qual cosa crea alcuni momenti di confusione e sovrapposizione tra rumori e battute e dà talvolta l’impressione che gli oggetti siano utilizzati come accessori d’appoggio.
Nella seconda parte, invece, il dislocamento dei praticabili ci restituisce, con semplicità e chiarezza, i mutamenti e le sovrapposizioni degli spazi: nelle scene del triplice corteggiamento (Masa-Medvedenko, Trigorin-Nina, Kostia-Olga), del matrimonio di Masa, della tragica vicenda di Nina. E certamente ci dà una visione più simbolica, misurata e sospesa (a volte con qualche lentezza di troppo) rispetto al primo atto che invece inciampa in problematicità di gestione nell’utilizzo, a volte immaturo, del corpo e della voce, soprattutto nelle scene corali che potrebbero, invece, risultare gioielli compositivi, come alla fine del primo atto: dopo il ferimento, Kostia è adagiato, abbracciato, sostenuto e cullato da tutti; una pietà corale che ricorda la plasticità di certe statue del Canova.
Significativo e fortemente metaforico l’uso del gabbiano di carta, un origami che passa dalle mani della fragile Sonja (personaggio introdotto ex novo, insieme ad Olga, la badante di Sorin) a quelle del fratello Kostia che lo trasforma di nuovo in un foglio di carta, per poi ripiegarlo su se stesso; nel secondo atto il gabbiano lascia il posto ad un aeroplanino con cui l’eterna bambina Sonja gioca e, finito tra le mani di Trigorin, diventa di nuovo un foglio di carta in cui è narrata la tragica vicenda del figlio avuto da Nina e lo sfiorire prematuro della donna e del loro rapporto. Nina che tiene in braccio il suo bimbo, un involto di tulle che prima copriva il capo di Masa durante il “matrimonio/funerale” con Medvedenko, e che poi diventa il giaciglio di morte di Sorin.
La forza espressiva di Checov
Due gli attori che interpretano Kostia, tre le attrici che vestono i panni di Nina, a sottolineare le fasi di cambiamento radicale e di evoluzione che i personaggi attraversano all’interno delle loro vicende umane.
Marginale l’utilizzo extradiegetico della musica (con qualche interruzione e ripresa non programmate) che appare più come accompagnamento d’atmosfera che come elemento narrativo; essenziale quello delle luci, per lo più smorzate e flebili, che richiamano la condizione interiore dei personaggi. I costumi (con pochi cambi tra il primo e il secondo atto) rievocano mode del passato, dai primi del Novecento agli anni Ottanta, forse a voler sostanziare l’idea che il dramma in atto non ha epoca né luogo d’appartenenza?
Il lavoro, portato in scena a conclusione di un percorso di studi accademico, all’interno di un più ampio progetto, è stato curato da Virginia Franchi e Lorenzo Gioielli, ma interamente costruito dagli allievi della Stap Brancaccio. Lodevole, arduo e non del tutto riuscito il compito di portare Cechov sulle scene in una visione contemporanea, realizzata dai giovani per i giovani: il teatro è in continuo movimento, ma certamente non si può prescindere dallo studio e dall’interpretazione dei classici che restano punto di riferimento imprescindibile per chi voglia accedere ai mestieri del teatro e punto di partenza per qualsiasi progetto originale. I classici ci parlano anche oggi, forse con un linguaggio desueto, ma con una forza espressiva che travalica i confini dello spazio e del tempo; ecco che i grandi, come Cechov, ci appaiono quanto mai attuali e riproponibili all’infinito.
Info:
all’interno della rassegna “Classici del secolo futuro”
SOGGETTI PER UN BREVE RACCONTO
da “Il gabbiano” di A. Cechov
10 e 11 maggio 2018 ore 20.00
A cura di Virginia Franchi e Lorenzo Gioielli
Scritto e interpretato da: Carlotta Solidea Aronica, Jacopo Badii, Ludovica
D'auria, Lara Galli, Rose Marie Gatta, Federico Gatti, Valeria Iovino, Pietro
Lasciato, Mattia Lauro, Chiara Lorusso, Vittorio Magazzu' Tamburello, Antonio
Muro, Clarissa Rollo, Susanna Valtucci.