SETTIMO CIELO @ Teatro India: quelle rivendicazioni in corpetti troppo stretti

Spumeggiante, pruriginoso e a tratti frenetico, lo spettacolo SETTIMO CIELO vede il ritorno sulla scena della Bluemotion, formazione artistica dell’Angelo Mai in una produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale, 369gradi assolutamente da non perdere.
Il prezioso testo di “emancipazione sociale” della brillante drammaturga e icona femminista Caryl Churchill tratto da “Cloud Nine” del 1979 (fra i primi testi della autrice) resta in scena fino al 31 marzo in quel del Teatro India, per la sempre fresca regia di Giorgina Pi, già apprezzata per la qualità registica dimostrata in CAFFETTIERA BLU e qui anche per la cura scenografica dell’allestimento tutto, intelligente, funzionale, evocativo di epoche diverse, ma anche per la gestione di musiche e testo, per la cura che ci pare maniacale per gli spazi e le luci.

Lo spettacolo, diviso in due atti vuole essere un affresco quasi sarcastico delle contraddizioni britanniche sul tema dei diritti civili e dell’emancipazione femminile rispettando lo stile e la tensione narrativa originaria della Churchill: si parte dal canzonamento (inevitabile) della morale vittoriana di fine ottocento. Una famiglia inglese in Africa nel 1879 riceve la visita di un avventuriero che suscita desideri repressi, tensioni sessuali di ogni tipo, istinti velleitari di autodeterminazione e compiacimenti proibiti.
La stessa famiglia viene catapultata un secolo dopo nel 1979, anno chiave (oltre ad essere la data di stesura di “Cloud Nine” è anche il primo anno di Governo di Margareth Thatcher): i personaggi sono però invecchiati solo di 25 anni, mentre restano immutate, acronisticamente, quelle forme di repressione sessuale e castrazione dell’emancipazione femminile, nonostante il clima libertario di quegli anni.

In questa piéce, ripercorrendo fedelmente le indicazioni di Caryl Churchill, alcune parti femminili vengono recitate da attori e alcune maschili da attrici: principalmente si tratta di quelle figure che più di altri vivono una tensione sessuale repressa anche per il sesso opposto, amplificando così la confusione di genere e parificando per tutti la problematica della castrazione sociale.
Nel primo atto le sedute in ombra sui lati corti del palcoscenico vengono usate per l’uscita di scena degli attori che ivi restano fino a quando non vengono richiamati sotto i riflettori, in un continuo movimento di scena che facilita la visione di quasi due ore di spettacolo. Non sussistono peraltro tempi morti, la drammaturgia è spiritosa ma non scontata e si aggancia ai temi del razzismo e della xenofobiamescolandosi con le rivendicazioni queer e la lotta contro l'oppressione di genere che prende le sembianze apparenti di una lotta coloniale per poi tramutarsi in una lotta per l'affermazione della propria esistenza al di là di pregiudizi e convenzioni. La recitazione è buona, sostenuta da buona dizione: nessuno emerge più dell'altro per bravura perchè sono la performance è coralmente ineccepibile, il professionismo è evidente, le sbavature minime, l'interpretazione ottima anche nei casi di inversione di genere, solo lievemente ridicoleggiante; diversi i momenti ballati e cantati (buono l’equilibrio tra testo e canto) musicati dallo stesso Collettivo Angelo Mai.

Due gli elementi che catturano l’attenzione (almeno nostra): innanzitutto le scene curate da Giorgina PI (di qui il plauso nelle prime righe) curate ed evocative. Un mappamondo su fondo scena che richiama i luoghi del colonialismo britannico, tema pilastro della drammaturgia di Churchill; nel secondo atto, troneggia invece la gigantografia di Margareth Thatcher icona di un sistema austero, repressivo e non simpatizzante con il movimento femminista e non in linea con la lotta alle diseguaglianze anche di genere, intraprese invece nel Continente europeo negli anni ‘70.
Campeggiano questi due simboli alle spalle degli attori insieme ad un orologio sornione che, pur scattando di un secolo, lascia immutate quelle tensioni di fondo, quelle incapacità inespresse di affermazione libera e consapevole dei protagonisti: sono questi due simboli a schiacciare gli attori con la loro ingombrante presenza, a frustrarne ogni possibile spinta eversiva. Sono quella cornice da cui non è possibile fuggire, ma in cui è possibile dibattersi.

In secondo luogo, ci colpiscono i costumi molto ben curati da Gianluca Falaschi: non sappiamo se c’è stata una scelta registica in questo senso ma l’uso di stretti corpetti (o attillate magliette) bianchi per i ruoli femminili (interpretati o meno da uomini o donne è indifferente) sono forse l’emblema più spiccato della costrizione del personaggio in ruoli rigidi imposti da una società patriarcale e patriottica che tanto nel colonialismo quanto nel Thatcherismo pretendeva o imponeva il rispetto di regole fisse e immutabili, da non contraddire, per mantenere in piedi una elegante fragilità. Era lo stesso mondo che vedeva nel 1879 il “colonizzato” come selvaggio e il diverso come “degenerato” e qualsiasi deviazione dalle convenzioni un “abominio”.
Ai corpetti stretti fanno da contrappeso le gonne voluminose e vaporose e la culotte con la bandiera britannica sul posteriore, sventolata in apertura al grido di “Britannia”: l’ulteriore provocazione e derisione di un mondo rigidamente preoccupato di coprire le proprie vergogne, le proprie vergognose ipocrisie.
Ma l’impossibilità di imporre una costrizione per sempre, comporta l’inevitabile violazione della stessa e l’affermazione della propria identità, anche ad un secolo di distanza, una guerra sociale non ancora vinta, condotta con maggiore coraggio e meno pudore, ma ancora con un grande limite di affermazione, soprattutto per la donna in società castrata da un modello maschile e dominante che ha nelle Istituzioni colonialiste e conservatrici il suo riscontro più grande.

Tutte queste provocazioni, tutte queste pulsioni vivono amabilmente in questo spettacolo dall’atmosfera iniziale vagamente fumosa, dominata da una tensione sessuale fra i protagonisti più che palpabile, e dalle luci calde e concentrate sugli interpreti.
Una drammaturgia imperdibile quella uscita dalla traduzione di Riccardo Duranti che risulta meno “crudele” di Caffettiera Blu, condita da caustiche frasi ad effetto e certamente “pruriginosa”, se la immaginiamo calata nel contesto storico di fine novecento, come può esserlo un vestito stretto da donna che non si vuole mettere e lascia i “segni” sulla pelle, segni fatti di “frasi” e “tensioni” non corrisposte che non possono lasciarci indifferenti neanche in questa epoca presente, dominata com’è da una continua difesa di diritti acquisiti con grande sforzo dalla comunità LGBT e dai movimenti femministi e post-femministi, fino all’attuale lotta contro la violenza di genere del movimento Me Too e al sempre verde tema della autodeterminazione della donna e senza dimenticare lòa lotta ad ogni forma di razzismo e xenofobia ancora vivissime con il riaccendersi dei fenomeni migratori, in un contesto post-coloniale che, a quanto pare, non ha smesso di allontanare e discriminare per colore di pelle ed etnia.

E la domanda che allora ci accompagna uscendo da questo spettacolo, ora che siamo a 40 anni esatti dal 1979 e viviamo un altro momento cruciale per il regno britannico, la Brexit dall’Unione europea è: a che punto siamo con l’affermazione di questi diritti più in generale in tutto il mondo?
Ora che la Brexit è il nuovo elemento sullo sfondo con la sua portata semantica di un riscattato (quanto anacronistico) egocentrismo britannico (meno forte economicamente dei precedenti) analogo al sovranismo e conservatorismo che riempie gran parte delle cancellerie mondiali, quella lotta per il mantenimento delle rivendicazioni sociali sarà mantenuta o si trova in pericolo? Quali nuove battaglie si nasconderanno sotto i vestiti moderni dei Millennials (non solo britannici), quali ipocrisie dovranno essere portate a galla quando il Regno di sua Maestà tornerà a galleggiare solo nell’Oceano Atlantico e altri Paesi si troveranno a confrontarsi sempre meno in un isolazionismo desideratamente voluto per mantenere alte le proprie fragili ipocrisie?
Sapremo costruire una nuova modernità di valori e di battaglie sociali succhiando la linfa creativa dalle contraddizioni sociali interne fino a farle esplodere come i bottoni di un corpetto troppo stretto?
A nostro sentire, ci auguriamo che Caryl Churchill possa avere materiale a disposizione per tanti anni a venire.

Info:

SETTIMO CIELO
di Caryl Churchill
traduzione Riccardo Duranti
regia Giorgina Pi
con Michele Baronio, Marco Cavalcoli, Sylvia De Fanti, Tania Garribba
Aurora Peres, Xhulio Petushi, Marco Spiga
scene Giorgina Pi
costumi Gianluca Falaschi
musica, ambiente sonoro Collettivo Angelo Mai
luci Andrea Gallo

orari spettacolo
ore 21.00
domenica ore 18.00
durata 2 ore

un progetto di Bluemotion
produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale, 369gradi, in collaborazione con Angelo Mai

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