Dopo l’apertura con Decameron 2.0 (già recensito da Gufetto), sono un’altra produzione del Teatro Metastasio (con la Compagnia Lombardi-Tiezzi) ed un altro grande classico a chiudere la fervida e ricca stagione della Fondazione pratese. SCENE DA FAUST, tratto dal celeberrimo Faust di Goethe ed in scena fino al 19 maggio, è affidato alla regia di Federico Tiezzi che ancora una volta concentra così la propria attenzione sulla drammaturgia germanica dopo La Signorina Else di Schnitzler (anche questo andato in scena a Prato e recensito da Gufetto). In una scenografia diafana ed asettica riprende vita il mito del Dottore che per sopportare il peso dell’eterna tensione verso la Conoscenza sceglie di firmare il patto col Diavolo, ovvero con quell’alter ego freudiano frutto del suo inconscio e necessario sviluppo di un Es troppo a lungo represso.
Istinto contro ragione, conoscenza contro ignoranza, luce contro ombra, bene contro male, finito contro infinito. E’ fortemente denso di contrasti e di contraddizioni il testo di Goethe che delinea con indescrivibile forza la natura umana nel tentativo di fornirne una mappa esaustiva. Con il rischio di perdersi lungo il percorso fatto di sconfitte e di fallimenti, la mèta resta chiara e inequivocabile: la Conoscenza totale e totalizzante, unica dimensione nella quale l’uomo può davvero privarsi della propria limitatezza e assurgere ad una dimensione Altra, superiore ed altrettanto totalizzante in cui comprendersi perché capace finalmente di farsi spettatore di se stesso. Gli occhi possono seguire solo ed esclusivamente la luce in grado di rischiarare le tenebre e di vincere l’ignoranza. Ma la luce, se diffusa e multidirezionale, può anche annullare quelle differenze e togliere alle cose del mondo quelle forme che una mente razionale ricerca come riferimento. Pertanto l’illuministica concezione della luce lascia spazio ad un romantico panteismo, ad un affascinante immanente che distrae dall’assoluto trascendente e lascia l’uomo preda della sua natura istintiva ed istintuale.
Faust come drammaturgia della luce: questa è la scelta adottata da Federico Tiezzi in contrasto con l’aspetto a tratti gotico dell’originale, una luce che si diffonde letteralmente nello spazio così reso ancora più ampio fino a lambire il pubblico che ne viene altrettanto infuso. Nessun Paradiso e nessuna vita eterna attendono però l’uomo: se il cattolico Dante viene accompagnato colà dove si puote ciò che si vuole nei giorni immediatamente precedenti alla Pasqua, in una sorta di Calvario verso la Redenzione, nello stesso periodo liturgico Faust, uomo di scienza che non può cedere alla tentazione del Trascendente, è turbato perché non concepisce altra via se non quella fatta di studio, di elucubrazione, di consapevolezza del “sé uomo”. Ma quando anche i libri hanno perso le loro lettere lasciando spazio a delle pagine bianche come la diafana scenografia, non resta che rivolgersi a quell’opposto tentatore, a quel Male che alberga nell’animo umano e che viene continuamente represso per convenzione o per frustrazione.
Solo Mefistofele diviene interlocutore capace di interfacciarsi col Dottore, di aprirgli la strada alla sorgente di un appagamento puramente corporeo fatto di effimere sensazioni. Immerso in un relativismo privo di punti di riferimento, in un contesto senza contorni e forme, l’uomo apre un interscambio col suo Es, col suo inconscio fattosi carne per lui, in grado di psicanalizzarlo dando vita ad un processo in cui si completa quel transfert di freudiana memoria che lo porterà dall’innamoramento al distacco finale, testimone della rovina che questo rapporto malato ha causato. Gli spettri di Faust prendono vita e dialogano con lui con un senso di intimità che lo porta ad assopirsi sulle gambe del Diavolo con il quale gli scambi, sia di posizione sia di ruolo, facilitati anche dalla somiglianza dei costumi, sono continui, rivelando a tratti la limitatezza del Maligno e a tratti l’inesauribile fonte di vita dell’uomo. Entrambi rinnegati dal loro mondo esprimono uno spirito di solidarietà l’uno verso l’altro che li legherà quasi morbosamente fino alla fine sacrificando anche l’unico sentimento d’amore autentico verso Margherita, ultima vera vittima immolata sull’altare delle convenzioni e dell’opportunismo, rinnegata anche dal caro fratello Valentino, nuova vittima sacrificale.
L’intera messa in scena assume il carattere di una lunga cerimonia in cui non mancano gli ingredienti principali: dai rituali cambi di scena completati da “chierichetti laici” in tuta isolante e maschera di protezione, agli intermezzi polifonici intonati dal folto gruppo di attori che si sono cimentati in maniera complessivamente convincente in vari ruoli. A farla da padrona la freddezza e l’asetticità dell’acciaio che cede talvolta lo spazio al verde degli alberelli portati sulla scena solo ed esclusivamente alla presenza di Margherita, unico personaggio compatibile con il cromatismo della vita contro l’accecante bagliore dell’Assoluto, sia esso Bene o Male.
Infatti nella trasposizione di Tiezzi non si percepisce in nessun momento la tentazione di maledire il Diavolo, quel Mefistofele che invece di apparire nella sua provocatoria malignità assume i tratti a volte sbarazzini e, appunto, “mefistofelici” di un convincente Sandro Lombardi. Con tanto di trucco uniformemente bianco sul viso, capace di mimetizzarlo con la scenografia, l’attore ha saputo restituire l’aspetto più umano del personaggio privandolo completamente di quell’aura di trascendentalità, se non per il tono complessivamente lirico della recitazione, oramai tratto distintivo dell’attore toscano. Pertanto non stupisce neanche la scelta di Gregorio Zurla di adottare costumi simili (e peraltro davvero ammirevoli, realizzati dalla Bottega di Alta Specializzazione delle Manifatture Digitali di Prato) anche per il Faust Marco Foschi. Quest’ultimo è stato particolarmente reattivo negli scambi e nei tempi mentre interagiva con gli altri personaggi, soprattutto con Mefistofele e con Margherita (Gretchen) interpretata da Leda Kreider, protagonista anche del monologo finale, per noi attorialmente impeccabile ma forse poco coinvolgente in uno spettacolo in cui il suo personaggio rappresenta l’unico vero elemento di “umana pietà”.
Dalla cucina della strega, che si trasforma in una improbabile sala operatoria con un equipe medica fatta di scimmioni – bel richiamo cinematografico a Kubrick – all’ipotetico Monte Calvario in apertura in cui i tre Arcangeli vengono “crocifissi” a testa in giù come San Pietro in costume quasi adamitico, è costante ed evidente l’intenzione del regista e drammaturgo di osare, forte del fatto che vero protagonista e deus ex machina è il Male, l’inafferrabile, l’ineffabile che dialoga con Dio attraverso uno specchio rotto in grado di deformare e storcere la realtà. Allo stesso modo affrontare un ritmo della lentezza in crescendo senza appoggiarsi alla musica ed affidandosi alla polifonia coinvolgente e solenne restituita dagli attori è per noi una scelta coraggiosa. Perciò apprezzando questa scelta avremmo preferito che tale audacia fosse uniformemente distribuita anche laddove la sensualità del rapporto tra Faust e Margherita viene invece frenata senza trovare quello sfogo che, non certo per voyeurismo, ma soprattutto per coerenza ci saremmo aspettati. Questo Faust, in tredici capitoli ricchi di riferimenti e colti rilanci alla letteratura, al cinema, alla teologia e alla produzione teatrale – anche dello stesso Tiezzi (Scene da Amleto) – nella spoglia e raffinata cornice di estremo rigore, porta in scena il tormento oscuro della palude dell’uomo, il dolore della miserabile esistenza colma di angoscia, con l’asettica geometria di luci, oggetti e attori, in esatte coreografie di movimenti: restiamo a guardare ammirati, tuttavia freddi, contagiati dalla iconografia algida, che non ha creato empatia con le vicende, fino al finale della “lacrimosa” Gretchen, una Ofelia di veli bianchi vittima di un ingranaggio perverso a lei inaccessibile in attesa di una salvezza che non verrà. Una redenzione che non può giungere né dall’insondabile, seppur “umano”, Mefistofele né tantomeno dal suo innamorato, un Faust che di fronte all’incommensurabile di kantiana memoria non prende consapevolezza della propria potenza ma solo della sua incolmabile incompletezza.
SCENE DA FAUST
di Johann Wolfgang Goethe
versione italiana di Fabrizio Sinisi
regia e drammaturgia di Federico Tiezzi
con Dario Battaglia, Alessandro Burzotta, Nicasio Catanese, Valentina Elia, Fonte Fantasia, Marco Foschi, Francesca Gabucci, Ivan Graziano, Leda Kreider, Sandro Lombardi, Luca Tanganelli, Lorenzo Terenzi
scene e costumi di Gregorio Zurla
luci di Gianni Pollini
regista assistente Giovanni Scandella
coreografo Thierry Thieû Niang
canto Francesca Della Monica
produzione Teatro Metastasio di Prato, Compagnia Lombardi-Tiezzi in collaborazione con Fondazione Sistema Toscana/Manifatture Digitali Cinema Prato e Teatro Laboratorio della Toscana/Associazione Teatrale Pistoiese
foto Margherita Nuti, foto di copertina Luca Manfrini
Teatro Fabbricone, Prato
PRIMA ASSOLUTA
11 maggio 2019