Scabia, Carbone/Festa, Fortebraccio @ Inequilibrio Festival

Ha aperto il Festival Inequilibrio22 Giuliano Scabia/Armunia con La commedia della fine del mondo, 25 giugno in prima nazionale. Scabia crea un teatrino di marionette nel quale come capocomico fa accomodare i suoi dinosauri, creature di un mondo immaginario dell’infanzia, che, giocando, vanno a fondo su importanti tematiche politiche ed ecologiche quali la cementificazione globale, la distruzione degli equilibri naturali, cosa sia e quali siano le conseguenze della tecnologia. E’ presentato un mondo “dinosaurico”, abitato dai mostri preistorici con i colori sgargianti e le smorfie imbelli di un mondo di cartone. Queste creature enormi e preoccupate per la loro imminente fine a opera di un meteorite, che non per cattiveria punta verso la terra, ma perché quella è la sua natura, non fanno paura, fanno sorridere, ridere, a volte di un riso amaro e attraverso di loro si percepisce la nostalgia per la madre nella ricerca di un ritorno alle origini. Le origini vengono evocate attraverso un pastiche linguistico ironico e musicale che sintetizza il diletto materno, lingue vicine e lontane, e musica in una lingua nuova, “dinosaurica”, che torna alle origini, alle fantasticherie del mondo infantile, incantato, ma non imbambolato. I dinosauri stessi fanno il tappeto musicale della commedia attraverso cori fatti da giochi di suono con le loro voci e i loro corpi: tutto nasce e muore all’interno della scena, non c’è niente che provenga dall’esterno. La pièce è la metafora dell’essere umano e della sua grandezza impotente che attraverso un gioco apparentemente innocuo di bambini-dinosauri sovverte il mondo, in una scena che ricorda i teatrini infantili e delle marionette con i costumi immaginifici, creati da Lia Morandini con la collaborazione di Carla Sassetti. La “commedia” si trova nell’ultima pubblicazione di Scabia per Einaudi “Il lato oscuro di Nane Oca” 2019. Un progetto-laboratorio significativo quello di Scabia con Armunia che ha coinvolto membri della popolazione locale che hanno costituito “La famosa compagnia dilettantistico amatoriale” che ha messo in scena la “commedia”. Questa iniziativa è il segno dell’impegno sempre attivo e capillare di Armunia a costruire un legame profondo con la popolazione della Costa degli Etruschi.

Un altro aspetto della disintegrazione della nostra società è stato messo in scena da Gemma H Carbone/Riccardo Festa/Armunia, TU ovvero chi è questa stronza?, 27 giugno, che si apre in una scena naturalistica dove ci si accorge che di naturalistico non c’è niente. Si vivono i cliché del rapporto di coppia che vive solo nelle parole; il corpo è dimenticato, ma viene gettato allo spettatore che affonda nelle loro forme e nei loro odori, come se lo spettatore stesso incarnasse il velo di Maia, smascherando quello che i luoghi comuni, le frasi fatte vogliono nascondere. Un teatro dove non si rappresenta nulla, un gioco di rappresentazione e annullamento del teatro. La luce, a tratti, è sugli spettatori-attori e qualcuno di noi rimarrà senza parte, come se nell’atopia dell’altro si realizzasse l’utopia dell’Eros; si realizza continuamente una dislocazione sia linguistica sia topica: è un gioco con le citazioni, con i film, con gli attori dei film; è un attraversamento continuo di luoghi, ricordi, persone, di citazioni letterarie e filosofiche, di odori. L’odore degli attori si mescola agli spettatori ed è un’attraversamento di una vita e di mille vite nell’esemplificazione degli stereotipi della vita di coppia che vengono svelati. La scena e i movimenti sono naturalistici per portare un attraversamento antinaturalistico in un zoometamorfismo dei personaggi. La storia è semplice, tratta da “Melampus” di Ennio Flaiano, con la drammaturgia di Attilio Scarpellini: uno s’innamora di una, non ha molta importanza che l’uno sia uno sceneggiatore italiano a New York nella fase conclusiva della sua poco brillante esperienza americana e che l’una sia una ragazza americana disarmante nella sua deregolamentazione. I due rappresentano i cliché di coppia che sono spalmati in ognuno di noi, dove lo spettatore diventa attore di questa utopia dell’eros dove il linguaggio è l’unico veicolo di immersione nell’altro, ma che appunto per questo senza il corpo diventa “non senso”. Il velo sullo sfondo che fa da schermo per le citazioni cinematografiche proiettate diventa il velo squarciato della relazione, che continuamente viene tagliato perché è lì che avviene quel contatto reale e corporeo che nel mondo dei cliché della quotidianità diventa utopico, mentre nel luogo non luogo, che cambia sempre, ma mai sulla scena, viene mutato in reale. Nel quotidiano, l’unico modo per vivere la corporeità della relazione è quella più semplice e profonda del padrone-cane, la mutazione nell’istinto è l’unica via di uscita? C’è un mistero che pervade tutto, dove il dislocarsi continuo è l’unico modo per parlare d’amore, in questa metamorfosi continua da cane a cobra che si unisce al mito della donna-bambina prepotente e terribile che con un candore sorprendente dice cose agghiaccianti anche ne “Il bell’Antonio” di Liliana Cavani. E’ un registro non diretto dove solo i cerimonieri di questo accadimento rivelazione la relazione di una mancanza più che di una presenza: si rivela la mancanza, il desiderio. L’amore è mancanza, è desiderio, e il desiderio prevede l’attraversamento di una carenza come nel mito platonico della nascita di Eros da Poros (l’attraversamento/strada) e Penia (povertà/mancanza).

Fortebraccio Teatro, IN EXITU, 6 luglio, mette in scena un testo della fine degli anni ’80 di Giovanni Testori con la produzione della Compagnia Lombardi Tiezzi, dove si coglie la fine del linguaggio come fine dell’individuo, dell’io. Nello splendore straziante del bianco di una scena, dove persone, luoghi, esperienze, ricordi, la metropoli appaiono come fantasmi in un cervello dilacerato dalla droga tra realtà, emozioni, impulsi, ragione, chimica, le parole vengono smontate in una logica di assonanze e di gioco, dove la lingua non ha più senso, ma è solo suono. La lingua, quella di Giovanni Testori, è la lingua di una testa fantasma, fatta di assonanze, figure etimologiche, chiasmi in una varietà ricchissima del registro poetico, che descrive la metropoli industriale in un’atmosfera post-industriale, post-contemporanea dove la liturgia in latino si mescola al substrato dell’inferno dantesco e del canzoniere petrarchesco. I suoni da campane a morto diventano sempre più impulsi di un cyborg; attraverso la chimica c’è la metamorfosi dell’uomo nel cyborg, nella marionetta. La scena rappresenta il vicolo cieco dei pensieri asfittici, ripetitivi della follia che attraverso la ricostruzione musicale e sonora di Gianluca Misiti che crea tappeto sonoro eccellente e sorprendente dove io canto dolcissimo delle sirene, evocato in questo cervello naufragato, non salva, ma rende pazzi o ancora più pazzi. Lo spettatore si sente irretito in questo spazio claustrofobico, splendidamente bianco, che diventa una camera di contenzione, che assorbe i suoni, i movimenti, l’articolazione delle parole. Questo cervello assorbe tutto, senza rendere niente. Lo spettatore-flâneur passeggia nella mente straziata di questo uomo-ciclope, immensamente grande o piccolo, che nella sua caverna rifa una e mille volte, in uno zoppo teatrino, il racconto della sua vita. E’ il racconto della frammentarietà dell’io, perché quello integro non lo si sopporta, è necessario dividerlo, squarciarlo nel taglio delle sostanze per mescolarsi ad esse nella creazione di un novello Frankestein e nel taglio fiorisce tutto questo: lo si deve far diventare un ossario di tutto quello che si è e che si è vissuto in una lingua bislacca che l’inconscio riporta ai ricordi, ricordi, ormai del tutto incorporei che appaiono e scompaiono con un leggero vento di tende. Il vento non lo si sente, ma ci fa correre. Le pareti sono incorporee ma nella loro penetrabilità sono del tutto e orrendamente impenetrabili come i limiti che ci poniamo nella nostra testa, anche il corpo è impenetrabile dal movimento, ormai rattrappito in un nervoso contorcersi come la voce stessa che esce stridula e bieca, ormai irriconoscibile anche nel genere: tutto si trasforma in marionetta-cristo. La liturgia cristiana in latino accompagna la passione cristoforica in cui il padre/madre (dio/vergine, eva/adamo), che guardano gelidi come droghe sintetiche il loro figli/cristo sacrificato, ormai instatuato in un manto di plastica. Così si compie in un uno l’entrata in gerusalemme e l’ascesa al calvario dove si compirà una resurrezione/ascensione metafisica di un corpo ormai destrutturato e che porta a termine una “endofagica” epifania. La mente si gonfia e lui scompare nel suo sudario. Alla fine chi ci salva? Tutto è riportato all’interno di un inferno metropolitano e tutto si compie in uno strazio che arriva fino in fondo al taglio e lo rovescia fuori. E’ una lesione, anche, culturale di una società metropolitana industriale che non ha saputo comporre la distanza con il passato e si è definita attraverso la distruzione della sua identità più profonda: sono i destini dell’identità, perché ormai “parla e scrive troppo difficile” su questa sua esacerbata città. La messa in scena rende in maniera anatomica e precisa questo sfaldamento neurologico, umano e spirituale. L’intimità col mondo, coi ricordi, gli affetti è inconsistente e irraggiungibile: è un burrone profondo e scivoloso.
Si sente l’influenza della lunga e profonda tradizione di messe in scena testoriane di Lombardi e Tiezzi. Questa asfissia mentale e affettiva porta una trasformazione anche nei fluidi interni come se non  scorresse più sangue nelle vene, ma fluidi chimici che lo trasformano in un povero spaventa passeri che si contorce ed è spezzato nei movimenti attraverso l’interpretazione di Roberto Latini che utilizza il microfono come medium per rendere tutto questo. Appare come un San Giovanni, tutto nervi e cervello, trafitto, che compone la sua apocalisse in un deserto post-atomico. C’è anche, però, poesia sulla terra, sulla terra degli sconfitti, poesia che microscopicamente scende nel piccolo dei denti, della carne, delle ossa, del sangue, che diventano un pasto. Per chi? La testa nel parlare si sgonfia e alla fine non esisti più: in exitu.

Info:
LA COMMEDIA DELLA FINE DEL MONDO
Tratto da Il lato oscuro di Nane Oca (Einaudi 2019) di Giuliano Scabia
regia Giuliano Scabia
con Silvia Aquilini, Mario Baldeschi, Paolo Borsa, Daniela Castellini, Carlo Cellai, Sonia Coppoli, Elena D’agostino, Silvia Frino, Fabio Granchi, Elisa Lazzeri, Adriana Naitana, Fernando Pellegrini, Monica Pietrasanta, Manuela Salvadori, Aloisio Sciortino, Ombretta Torti
ideazione costumi Lia Morandini realizzazione costumi Carla Sassetti
scene Laboratorio Scenografico Armunia
produzione Armunia

TU ovvero chi è questa stronza?
di Gemma H Carbone e Riccardo Festa
drammaturgia Carbone, Festa, Flaiano, Scarpellini
con Gemma H Cabone e Riccardo Festa
regia Carbone – Festa
drammaturgia Attilio Scarpellini
costumi Marika Hansson
produzione Armunia coproduzione Naprawski con il sostegno di Centro di Residenza della Toscana (Armunia – CapoTrave/Kilowatt) ABF Göteborg

IN EXITU
Fortebraccio Teatro
dall’omonimo romanzo di Giovanni Testori
adattamento, interpretazione e regia Roberto Latini
musica e suono Gianluca Misiti
luci e direzione tecnica Max Mugnai
scena Luca Baldini
produzione Compagnia Lombardi Tiezzi

Festival Inequilibrio22
25 giugno – 7 luglio 2019

image_pdfSCARICA QUESTO ARTICOLO IN FORMATO PDF