Sabato 17 febbraio 2018 è andato in scena ai Teatri di Vita a Bologna “SANTO SUBITO + KOVA KOVA”, un estratto di “Sterminio” uno dei Drammi Fecali di Werner Schwab, fenomenale e riconosciuto autore austriaco, morto omicida nel capodanno del 1994 per overdose di alcol dopo aver dedicato un’ intera esistenza all’ascolto dell’orrendo rumore che produce il mondo.
Uno spettacolo di Dante Antonelli, diplomato in regia all’Accademia Nazionale “Silvio D’Amico”, fondatore del collettivo SCHLAB, nato appositamente attorno ad un progetto sulla tetralogia dei Drammi Fecali di Schwab, interpretato da Gabriele Falsetta, Valeria Belardelli e Arianna Pozzoli, con le musiche dal vivo di Samuele Cestola e con Francesco Tasselli alle luci.
A cosa possiamo attribuire l’affermazione “riuscito bene”? Che tipo di spettacolo può essere costruttivo per un individuo? Quali sono gli elementi e i motivi che spingono uno spettatore a esprimere un giudizio positivo su ciò che si è fruito? Ma soprattutto: si riesce sempre a comprendere quello che si è visto? È servito a qualcosa? Spesso queste sono le domande che ci poniamo uscendo da una sala teatrale, cinematografica, un museo o un’esperienza vissuta in un qualsiasi luogo possa ”cambiare” la nostra giornata, domande che mi sono posto quando ho visto SS+KK. Forse perché la poetica di un “essere” come Schwab è cosi fuori dal comune che spesso può essere incompresa, sia da chi la interpreta che da chi la subisce; non mi sento, in questo caso, in diritto di giudicare se una delle due ipotesi è reale.
Ma quello che posso dire e che sono parole forti, spesso amare, che manifestano un punto di vista molto crudo della vita; parole che agiscono con violenza sulla ragion comune. A volte non c’è bisogno di estremizzare quell’arte istrionica che ci allieta da ormai duemilacinquecento anni per attirare l’attenzione su di sé e ricevere ipocriti applausi, anche perché l’applaudire sembra sia diventata una semplice pratica convenzionale, un rituale di cortesia che avviene alla fine di uno spettacolo. Non sempre servono applausi per capire o dare una minima risposta alle domande che ci siam posti prima, ma solo saper dire le cose giuste al momento giusto e alle persone giuste.
Fuori dalla sala percepiamo un cinguettio di uccelli, suono che tende ad ingannare le aspettative di chi poi entrerà. Infatti, una volta dentro, avvertiamo un’aria di mistero; l’ambiente, anche se paradossalmente vuoto, sembra ostile, avverso, per nulla rassicurante. Intravediamo tre attori seduti in penombra ai lati del palcoscenico mentre un bagliore di luce illumina centralmente l’area del palcoscenico. Quelle figure sembrano assorte nella loro ansia, quell’ansia che prende allo stomaco, che è doveroso combattere quando si è esposti a una qualsiasi forma di giudizio esterno cercando non cadere lungo il percorso che si dovrà intraprendere. Ai lati estremi del palco sono ben visibili due consolle, parte integrante dello scenario.
Improvvisamente le luci si abbassano, un “beat elettronico ritmato” da inizio all’azione mentre un attore si alza e si posiziona al centro intento a “vomitare” parole tristi e amare a tempo di musica e raccontarci la sua storia. La pièce si svolge all’interno di in un condominio, dove al piano terra vive un arista folle (Gabriele Falsetta) in eterno conflitto con la madre religiosa, moralista e ipocrita. La donna non esita a distruggere le convinzioni del ragazzo, imponendogli una visione delle cose secondo il suo punto di vista e pungendolo, inconsapevolmente, con lo spillo del pregiudizio ben nascosto dal quel velo religioso-morale di cui lei stessa è succube. L’artista è diviso in due, non riesce ad emergere dalle tenebre che lo avvolgono, cerca di difendersi come può armato di pennello e tela, dipingendo ogni giorno lo stesso quadro nero.
Ma arriva il momento di proseguire, si va al piano superiore dove incontriamo due gemelle (Valeria Baldarelli e Arianna Pozzuoli). Due adolescenti dei giorni nostri, alienate dal mondo e dalla realtà, nascoste dietro un cellulare per non affrontare la violenza di un padre psicopatico e una madre alcolizzata. Madre che, celando il tutto all’interno del focolare casalingo, diviene complice degli abusi del padre verso le figlie. Ma arriva il momento di salire all’ultimo piano, da colei che non può fare a meno della parola, assuefatta dalla pura espressione, colei che ritiene che «il potere è arte e l’arte non è potere», che non ha sessualità ma solo “essere”: la Tragedia (Gabriele Falsetta). Lei che è baciata dal sole e non ha paura di mostrarsi, lei che ti provoca e ti ripudia, lei ti sputa addosso sentenze da cui non puoi fuggire e che scoperchia il vaso di Pandora ogni qualvolta agisce, rigettandoti addosso tutti i mali del mondo.
Schwab le cuce addosso un incandescente monologo provocatorio sulla concezione dell’uomo inteso come essere abietto, essere che si amalgama alla massa per non essere visto e che fugge dal dovere del fare, che non si avvale del diritto di cambiare o essere diverso solo per timore.
La performance è dettata dal ritmo e i performer danzano e recitano a suon di musica elettronica. Gli attori sono cadenzati ai ritmi, a volte spenti e a volte incalzanti, presenti in scena.
La scenografia vuota dà rilievo alla centralità dell’attore ed è maggiormente sottolineata dalla disposizione delle luci che illuminano perlopiù il centro del palcoscenico e gli attori. Lo sfondo nero incarna, simbolicamente, il punto di vista che l’autore ha sul mondo, conferendo all’ambiente un tono macabro e misterioso. La suggestione cresce nell’alternarsi delle scene; gli attori ricamano la tela spettacolare con la loro fisicità. Consumano ogni briciolo di energia per dare man forte alla ritmica di scena trasformando il palco in una sorta di ring battendosi in una lotta verbale, sia tra loro che col pubblico, sferrando i micidiali colpi di Schwab.
L’autore, nella sua breve ma brillante carriera, cerca di esprimere il concetto di teatro visto come illusione, utilizzando quella forma di “determinismo assoluto” che appartiene molto spesso alla filosofia degli “artisti maledetti”, spingendo il pubblico, in maniera piuttosto violenta, a riflettere sulle forme di ipocrisia e di pregiudizio che sono ormai completamente integrate all’interno della società e che rendono l’individuo assuefatto dalla propria illusione.
Sono efficaci questi mezzi? Ognuno è libero di pensarla come vuole. Non resta che andare a vedere lo spettacolo per giudicare, e vi consiglio di farlo.
Info:
SSKK
Santo Subito + Kova Kova
uno spettacolo di Dante Antonelli / collettivo SCHLAB
direzione Dante Antonelli
con Gabriele Falsetta, Valeria Belardelli, Arianna Pozzoli
drammaturgia collettivo SCHLAB
ambiente sonoro Samuele Cestola
ambiente scenico Francesco Tasselli
costumi Claudia Palomba
ufficio stampa Marta Scandorza
coordinamento Annamaria Pompili
foto di scena Giorgio Termini
video Francesco Tasselli
produzione Associazione Culturale Malatesta
con il patrocinio di Forum Austriaco di Cultura in Italia
con il sostegno di Carrozzerie n.o.t.