La settimana scorsa Teatro Biblioteca Quarticciolo e Fortezza Est ci hanno dato “un anticipo di stagione” attraverso quattro spettacoli messi in scena dal 20 al 22 ottobre, frutto di una collaborazione artistica dei due teatri del Municipio. Alcuni di questi spettacoli saranno in programmazione alla Fortezza Est nella Stagione 2022-2023.
Cos’è la Rassegna Condivisa
La rassegna CondiVisa. Teatri in movimento lungo l’Acquedotto (20-23 ottobre Teatro Biblioteca Quarticciolo) è un progetto di scambio e condivisione tra due fucine artistiche del V municipio, il Teatro Biblioteca Quarticciolo e Fortezza Est di Tor Pignattara. Due spazi strutturalmente molto diversi tra loro, ma accomunati dallo stesso ideale di arte come seme di riqualificazione per la città, in particolare per il municipio V di cui entrambi sono linfa vitale di creatività e cultura.
Di seguito le recensioni di alcuni degli spettacoli andati in scena
- il 20 ottobre ore 21 TORTELLINI E IL GIORNO IN CUI FURONO INVENTATI di Alice Bertini e Federico Gatti,
- il 21 ottobre, Giorgia Mazzuccato con LA FESTA E’ FINITA
- il 22 ottobre la compagnia Kontra Moenia con STORIA DI UNO CHE MI SOMIGLIA
- Il 23 ottobre ECO – ABOUT ELIZABETH diretto da Leonardo Bianchi.
TORTELLINI E IL GIORNO IN CUI FURONO INVENTATI, UNA STORIA DI ODIO E NOIA
A cura di Alessandro Parente

È noto come l’insoddisfazione e l’infelicità siano sentimenti trasversali ad ogni uomo e strato sociale. Una frase pronunciata all’inizio da uno dei personaggi ribadisce proprio questa sorta di luogo comune: “c’è in giro qualcosa di brutto: il malcontento generale”. Questo malcontento strisciante alla fine esaspererà le azioni dei personaggi messi in scena in questa interessante tragicommedia.
TORTELLINI E IL GIORNO IN CUI FURONO INVENTATI: i tre personaggi principali
La storia ricade se vogliamo in una sorta di topos che ritroviamo in vari tempi e culture, ovvero il rapporto dell’uomo comune con la regalità e soprattutto con l’azione corrosiva, spesso lenta ma continua e inesorabile, del potere.
I due personaggi principali, Roder e Letteria, sono intenti a trascorrere la loro piatta vita regolare in una quotidianità popolare e per certi aspetti “povera”. Tra loro vi è il classico rapporto di odio e amore, rispetto e derisione, che emergono fin da subito tra i dialoghi dei due protagonisti mentre sono costretti a condividere un unico barile di viveri. Condividono inoltre anche un sentimento rivolto al loro sovrano, all’inizio figura quasi trascendentale: l’odio. Il re incarna la malvagità causa dell’infelicità del popolo.
Incastonato nel suo trono, tronfio di ghigni e di autoreferenzialità è accompagnato da le sue due guardie e da una costante e sfacciata noia.
TORTELLINI E IL GIORNO IN CUI FURONO INVENTATI: odio e noia come sentimenti centrali
Odio e noia sono quindi i due sentimenti che prevalgono all’interno dell’opera. Le due scene, quella dei due popolani e quella della corte reale, si alternano con maestria in una scenografia semplice ma essenziale e ad effetto. Il palco è dominato da due cassoni in legno centrali che fanno da trono per il re e da luogo di bivacco per Roder e Letteria. Per questi, di lato, al margine, è disponibile un bidone, unico bene da condividere che dona cibo ed acqua.
Nei dialoghi che si susseguono tra battute comiche e momenti drammatici, odio e noia si sviluppano parallelamente. La noia alla fine sfocerà nella decisione del re di indire una gara culinaria per tutti i sudditi del reame a chi creerà il piatto migliore ed a un premio a dir poco allettante. L’odio invece porterà, attraverso la gara di cucina, ad una forte volontà di rivalsa. Così i due sentimenti si trascineranno e svilupperanno con risvolti estremi: la noia, con la sua ricerca spasmodica del sezionale e stravagante condurrà fino all’autoannullamento; l’odio e il rancore porterà ineluttabilmente alla vendetta ed a nuovo ciclo di abusi e sottomissione.
TORTELLINI E IL GIORNO IN CUI FURONO INVENTATI: i richiami letterari e teatrali
La storia, come accennato, ripercorre dei temi classici con possibilità di riscontro a riferimenti ben individuabili. Una profezia improvvisa per Roder e Letteria ricorda il responso delle streghe in Macbeth e nella conseguente possibilità di abbracciare la libera scelta o l’inesorabile destino. La figura del re, il suo potere logoro da anni incalcolabili di regno, riporta in mente molti temi del Il Re Muore di Ionesco, la finitezza della vita e l’inesorabile legge: prima o poi tutto finisce.
Inoltre la storia trova il risvolto centrale in uno dei piatti più famosi della cucina italiana da cui prende nome
la pièce teatrale: i tortellini. Saranno proprio questi che preparati con destrezza e con alchemico amore a portare l’intero atto al suo culmine tragico. Anche con questo piatto possiamo trovare quindi un riferimento famoso; i tortellini possono ricordare la superba fragranza creata da Jean-Baptiste Grenouille, protagonista del famoso libro Il Profumo di Süskind: un piatto che esprimerà dei piaceri sensoriali che fonderanno l’amore con la morte.
Una storia con risvolti sempre validi e alla portata di tutti
Seppur ritroviamo dei topoi ben saldi nella tradizione teatrale e letteraria, la storia tiene in maniera efficiente il ritmo della rappresentazione; i due livelli, i due cittadini ai margini della società e la corte reale, si alternano sulla scena con stupore e maestria senza alcuna interruzione. Le battute spesso comiche degli attori (che regalano spesso risate scroscianti), coreografie di lance e balletti, aiutano a rendere la storia originale e ad immergerla in tempi e luoghi quasi onirici e sempre validi. Anche i costumi riflettono la caratterizzazione dei personaggi. Mentre per i due popolani prevalgono costumi floreali con colori pastello al re spetta un costume con toni autunnali presagio di una noia che porta inesorabilmente ad un inverno interiore. La storia, i risvolti, la comicità e la tragicità rendono quindi lo spettacolo facilmente fruibile e adatto a tutti i gusti e a tutte le età.
20 OTTOBRE 2022
TORTELLINI E IL GIORNO IN CUI FURONO INVENTATI
di Alice Bertini e Federico Gatti
con Carlotta Solide Aronica, Alice Bertini, Michele Breda, Federico Gatti
regia Alice Bertini
disegno luci: Marco D’Amelio
musiche originali: Francesco Falanga
scene: Leonardo Barroccu
LA FESTA E’ FINITA: il filo rosso dei legami familiari difficili
A cura di Antonio Mazzuca

LA FESTA è FINITA, il secondo spettacolo della rassegna Condivisa, è un lavoro che investiga con pressante insistenza e tocco femminile spiccato, il rapporto fra due cugine e (indirettamente) fra le rispettive madri. Un lavoro al femminile perchè frutto dell’opera di tre donne: testo intimistico ed interessante (seppure in parte lacunoso) di Carolina Germini, con la regia “lineare” di Giorgia Mazzucato ed una Eleonora Bernazza in scena, incalzante e profonda.
LA FESTA è FINITA: il testo della Germini ed il buco drammaturgico
Partiamo dal testo: si tratta della storia di una relazione d’amore e odio che lega due cugine, figlie di due sorelle che a loro volta, non vanno per niente d’accordo. Due anime diverse, una vincente, una no. Una realmente affezionata, l’altra quasi. I loro rapporti corrono sul filo delle rispettive gelosie ed incomprensioni ed evolvono, mutano: le loro vite si avvicinano, si legano come fili, poi si districano, si separano, complice il rapporto non idilliaco delle due zie, la divisione a scuole e la crescita, estremamente diversa, delle due.
Una storia che è sì quella fra le due cugine cresciute come sorelle, ma indirettamente quella delle due zie, lontane l’una dall’altra per vecchi rancori.
C’è una sorta di acredine che attraversa tutto il testo, una specie di risentimento profondo che la Germini fa emergere con insistenza fra le cugine e fra le zie, un senso di inferiorità che campeggia, esplode, cambia forma e che si manifesta in modo improvviso in una delle due. Ma c’è anche la frustrazione, il senso di competizione che domina molto spesso i componenti della stessa famiglia. Una competizione cercata, ma odiata. Voluta, ma rimproverata. E le parole, il lessico di questo testo lo sottolineano con forza. Spietanza.
Questo sentimento ben reso nella drammaturgia di conflitto, è indotto da fattori che sembrano solo inizialmente esterni (le madri non si parlano, gli amici preferiscono l’una all’altra, il merito scolastico premia solo una e non l’altra), ma anche da fattori interni, personalissimi, umanissimi che sono ben investigati nei primi tre quarti di spettacolo. Poi arriva il finale, rotto, secco, lancinante quasi nella sua repentinità. E per questo avvertiamo un vuoto drammaturgico che riguarda proprio l’evoluzione della protagonista, la sfortunata delle due, quella più ben resa, quella meno “comune” quella a cui si dà più attenzione, più spazio e alla quale manca, alla fine, la descrizione dell’evoluzione che la porta al finale, a quella che è o diventerà, alla resa dei conti con la cugina.
Il finale, a tinte fosche, non è certo inviso allo spettatore, anzi anche atteso, supposto nel corso della piéce. Semplicemente occorre un quadro in più di spiegazione delle evoluzioni personali delle due protagoniste, altrimenti rimane forzoso, inevitabile nelle sue dinamiche ma inspiegato nella differenza caratteriale che lega la protagonista nel quadro precedente alla stessa “cresciuta d’età” del quadro finale.
LA FESTA è FINITA: la regia lineare di Giorgia mazzucato
Giorgia Mazzucato emerge vivida nella regia, pulita essenziale, ma efficace: sceglie una scenografia più sgombra di Guerriere (fra i finalisti del Fringe) ma più simbolica con delle linee di luci che corrono da parte a parte del palco del Quarticciolo. Ad esse sono legate le pagine di un diario della “cugina in gamba” per “dare luce” al suo punto di vista sul rapporto con “la cugina sfortunata”.
Linee che si stagliano alle spalle dell’attrice, come presenza silenziosa a cui rivolgere lo sguardo ma forse poco sfruttato.
Mazzuccato sceglie anche di porre un filo rosso a terra. Questo corre sul pavimento, quasi in trasversalità rispetto alle luci, ma esce dalla scena e viene raccolto dalla Bernazza, viene intrecciato dall’attrice in scena: è il simbolo del legame di sangue, è la metafora di altri oggetti durante la narrazione, è l’elemento “di scarico” della tensione scenica dell’attrice, su cui ella si accanisce. Quel legame “familiare” di sangue così voluto e così odiato al contempo, così “nelle sue mani”. Un elemento intelligente, centrale, ottimo.
LA FESTA è FINITA: la recitazione profonda di Bernazza
La performance della Bernazza è intensa e profonda. Non sfrutta tutto il palco ma lo riempie ugualmente. potrebbe farlo di più ma la forza è nell’espressività della parola narrata. Ci piace, anche se a tratti notiamo dei cali di tensione. Minimi cali che non intaccano la dizione, l’interpretazione delle due protagoniste di questa relazione difficile. L’attrice valorizza la parola, anche quando il testo deve affidarsi ad un lessico da “bambina”. Cresce in intensità sul finale, sgombra delle ingenuità della parola di adolescente, ma è penalizzata da quel buco drammaturgico che non ci permette di scorgere l’evoluzione del personaggio che ha così ben reso, invece per tutta la performance.
Seppure diversa nei tre quadri, è nell’ultimo che il climax recitativo raggiunge l’apice e tiene incollato il pubblico del Quarticciolo perchè “sappiamo come potrebbe finire”, dentro di noi. Siamo tutti stati, almeno una volta, una delle due. Forse non abbiamo mai immaginato l’epilogo, ma lo abbiamo visto accadere, magari lontano da noi, quasi come una maledizione per “quei non detti” che creano “rancori” profondi, radicati.
Questo lavoro dunque ci convince, è valido, ulteriormente perfezionabile a livello di regia con qualche luce diversa ed una maggiore presenza della voce della cugina “in gamba” attraverso un maggiore sfruttamento degli spazi scenici ed una introduzione di fogli o elementi scenici che ci riportino e raccontino ancora e meglio l’antagonista. Uno spettacolo che speriamo di ritrovare presto in scena nella Fortezza Est!
21 OTTOBRE 2022
LA FESTA E’ FINITA
Regia di Giorgia Mazzucato
Drammaturgia di Carolina Germini
Con Eleonora Bernazza
Una produzione SB Teatro
STORIA DI UNO CHE MI SOMIGLIA: UNO SPETTACOLO FUORI LE RIGHE
A cura di Ilaria Taranto

la compagnia Kontra Moenia esordisce in uno spettacolo fuori le righe: poco c’è di quello che ci si aspetterebbe, a partire dall’avvio. In scena Livio Ramuzzi e alla regia Arianna Di Stefano.
Storia di uno che mi somiglia – Livio Ramuzzi in un inizio differito
L’attore si trova fin dall’inizio sul palco; assiste all’entrata degli spettatori, prima con disinvoltura e con un incedere rilassato, poi con uno sguardo che si fa sempre più attento e serioso così da far calare il silenzio da parte del pubblico stesso che fugacemente lo aveva incrociato. Quello che ci si aspetta è un suo intervento… ma non è chiaro se da attore o da personaggio. Concentrata tutta l’attenzione su di lui, ecco che la voce di Livio Ramuzzi, solo sulla scena, si eleva tonante e parla diretto al pubblico.
Storia di uno che mi somiglia@ L’infrazione della quarta parete:
L’attore cerca tra gli spettatori una ragazza e, trovatala, l’attore la invita ad alzarsi e a rendersi ben visibile. Da questo momento in poi è sua compagna di viaggio, un secondo attore che, pur non salendo mai sul palco, percepiremo sempre presente nella rievocazione della storia.
Il dramma del giovane Livio scaturisce proprio perché scopre che la sua compagna se ne è andata senza dire nulla, senza scontrarsi con lui, senza permettergli di tentare un ultimo sforzo per farle cambiare idea, per fermarla e ravvedersi della fuga. Ed è questo che getta nell’animo del ragazzo uno scompiglio di pensieri contorti… un guazzabuglio di idee che si concretizza nelle movenze di un corpo agile e potentemente espressivo. Alcuni oggetti cari, solitamente in vista in casa, ora sono spariti. La ragazza deve averli portati con sé: la moka, che faceva un caffè più gustoso di quello preparato dalla madre, una piantina appassita, il Candido di Voltaire.
Proprio quando la situazione sta per precipitare nello sconforto, avviene una svolta: quella che sembrava una messa a nudo del personaggio, un confidarsi rammaricato col pubblico, si interrompe; ed ecco che entriamo nel vivo della finzione. Il passaggio non avviene con cambi di scena, contrasti di colore, intermezzi musicali. Nulla di tutto questo. A fare da regista è Livio stesso che con tono perentorio lancia il suo primo: Azione!
Storia di uno che mi somiglia: Azione! chi è la persona che ci somiglia?
Ci ritroviamo nella storia di uno che gli somiglia: un giovane altrettanto baldanzoso, dal look sportivo, riottoso in alcuni casi ma in fondo di animo buono. Indossa un cappottino alla moda e via… E’ nei panni di un altro, di uno che, come presentato all’inizio, si scopre improvvisamente solo. Ripercorrendo l’evento e meditando come se il fatto fosse capitato a lui, ha sotto mano tutto quello che Livio (l’altro)non vedeva: la moka, la piantina, il Candido. Saranno questi degli interlocutori previlegiati che ci accompagneranno nelle sequenze di Azione. Comicità, pungente tristezza,
ironia e amaro sarcasmo persistono e pungolano gli animi allibiti del pubblico.
Storia di uno che mi somiglia: il buonismo mascherato
Filo conduttore delle scene è uno sferzante grido contro il buonismo mascherato di idolatria dell’io, un interrogarsi continuo sulla legittimità o meno del perseverare sé stessi in una società che sembra si debba accettare perché, come conclude Candido, è pur sempre espressione del migliore dei mondi possibili. Ma dai mali che su esso incombono è lecito provare a scansarsi? Ed è altrettanto ammesso desiderare e cercare di vivere spensierati come Gatsby in una sala da ballo dove tutti festeggiano e pensare in definitiva al proprio orticello? A che vale crucciarsi degli altri? Meglio prendersi cura di sé e mettere la testa sotto terra come fa lo struzzo, non per paura, checché se ne dica, ma per controllare ciò che gli è di più caro: le uova, involucro dei suoi piccolini.
Storia di uno che mi somiglia – una fine senza finale
Un intermezzo musicale vivace stempera l’amarezza sottile che l’acredine aveva suscitato; torniamo cosi alla scena inziale in cui il ragazzo è di nuovo quel Livio da noi appena conosciuto nel racconto dell’attore, quello abbandonato dalla ragazza di cui cercava il volto nel pubblico.
Si, ma il finale? Può il pubblico accontentarsi di tornare al punto di partenza? Tutto questo viaggio per poi ritrovarsi daccapo? Ebbene sì! Ma niente rammarico perché è quello che in genere capita nella vita: ci imbattiamo in situazioni inaspettate che quando capita di rivivere si è pronti ad affrontare in modo diverso. Ecco dunque il perché del finale aperto: aperto perché cosi è la possibilità che ogni giorno ci viene data nel reagire alle avversità della vita.
Un invito dunque a salvaguardare i propri ideali, a mettere in gioco le proprie capacità, a valorizzare la propria persona, a vivere in libertà.
22 OTTOBRE 2022
STORIA DI UNO CHE MI SOMIGLIA
Compagnia Kontra Moenia
di e con Livio Remuzzi
regia Arianna Di Stefano
collaboratori artistici: Matteo Ramundo, Maria Vittoria Rossi, Aldo Scarpitta.
Produzione Fortezza Est / Compagnia Kontra Moenia
con il sostegno di Festival Montagne Racconta