LA COSCIENZA DI ZENO @ Teatro Quirino: il grande flebile suggeritore

Il Quirino serafico eppure vitale, è uno di quei luoghi che sembra esserci da sempre, come se tutto gli fosse cresciuto intorno: palazzi, strade, (fiori) e Caffè. È anche uno dei pochi Teatri dove il sostantivo può essere omesso, concedendoci il privilegio di dire «Ci vediamo dopo al Quirino!». La coscienza di Zeno è il compendio (con tanto di origininali abbreviaizoni che il protagonista usa) della inettidutine e senso di inadeguatezza di Zeno Cosini. La riduzione teatrale del romanzo di Italo Svevo è dello stesso regista Paolo Valerio e di Monica Codena. Quando si ha tra le mani un capolavoro come questo, il rischio concreto nel lavoro di sintesi è sempre  quello dell’amputazione testuale: qui invece la scelta delle sue parti per la messinscena, restituisce interamente l’umore sveviano. E Alessandro Haber contribuisce con misura all’intento.

La coscienza di Zeno: la voce flebile del robusto suggeritore

Il titolo che Italo Svevo volle dare al suo romanzo, avvisa da subito il lettore che avrà a che fare con quello scavo interiore che qui è anche psicoanalisi. È un cimento ammorbidito dall’ironia. C’è un debito dell’autore verso Freud che viene tuttavia dichiarato. Ma quell’amore a prima vista, non è incondizionato ma riadattato in chiave letteraria e ironica. Questo lo differenzierà anche da Pirandello, suo illustre contemporaneo. È l’estremo sud e l’estremo nord (I.S. è triestino). Autori eminenti, alleati sulle questioni esistenziali. Entrambi guardano alla miteleuropa per confrontarsi con giganti come James Joyce. L’autore siciliano rinnegherà però Freud e userà invece la chiave umoristica per trattare i dissidi interiori dei suoi personaggi. Ironia VS umorismo e in mezzo l’uomo che si domanda.

C’è in Zeno, una voce flebile ma che sa farsi sentire. In Teatro si chiama suggeritore. Qui è la coscienza che guida il personaggio: lo desta dal suo stato di sopore. Sceglie per lui i movimenti da indossare, le parole più accoglienti, i bivi da camminare. Quella voce interiore gli sussurra dentro e lo strattona dalla sua inettitudine già sedimentata. C’è in Zeno una sfocatura delle cose che resiste come edera già rampicata al muro della vita. C’è una sequela opaca di domande e fatti che assomigliano a un flusso. Quesiti che tentano di rendere nitida l’esistenza. Quel flusso viene salvaguardato dai due drammaturghi. Zeno parla a sé stesso. Nell’originale costruzione registica di Valerio: c’è lo Zeno canuto che parla allo Zeno Giovane. È un dialogo permeato dal ricordo che ribalza sino al quel luogo e tempo, quando ormai non si guarda più avanti ma ci si volta a cercare le proprie orme. C’è lo spettro del tempo che esige la redazione del bilancio sull’esistenza. Ma Zeno, così sdoppiato temporalmente, riesce a dialogare anche con gli altri personaggi. E quando si tratta di ricordi restituiti malamente alla platea, Zeno può aggiustarne il tiro e chiedere più o meno veemenza nella voce e nei nervi dei muscoli. Cambiare l’intonazione come un regista. Proprio lui: persona e personaggio surreale. Allora il ricordo torna onesto alla messinscena celebrata a Teatro e che Zeno/Haber vogliono verosimile e onesta per il loro pubblico. È spesso, la pièce, un esercizio di metateatro ben riuscito. Zeno si è sentito a disagio per tutta la vita, goffo, inadeguato e adesso cerca la giuria e la salvezza. E la platea è assunta al ruolo. 

La coscienza di Zeno: la parola cercata e quella grande esplosione che nessuno udrà

In questa riduzione teatrale del romanzo di Schmitz, c’è la ricerca della parola. Ed è il suo personaggio protagonista a frugare nel passato la parola. Ma non come esercizio meramente estetico ma come parola taciuta. Il non detto è chiuso nella morsa. La stretta di mano tra figlio e padre racchiude il senso dell’omesso per antonomasia. Quello che viene trattenuto in bocca tra padre e figlio non avrà altre occasioni di debutto o replica. L’eredità non è compiuta. L’esperienza dispersa inutilmente. «Le cose che non lasciano tracce non esistono», dirà l’autore il cui sguardo era rivolto alla mitteleuropa. Si intuisce già dallo pseudonimo di odore geografico col quale egli rivela la sua cultura italiana e tedesca insieme. Doppia cittadinanza letteraria. Italo Svevo (che va detto sempre per intero) è un nome che non tradisce nessuno. Abbraccia. Include. Il romanzo ha una forte valenza storica considerato il periodo di ambientazione: l’inizio della grande guerra. Nel finale di commedia, (forse la parte più celebre del romanzo, che Alessandro Haber ci restituisce vividamente e fedelmente), c’è il miglior pensiero sveviano: «Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta da ordigni ritorneremo alla salute. Un uomo, fatto come lui, ma più ammalato, ruberà quell’ordigno, si arrampicherà al centro della terra dove l’effetto sarà massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuna udrà e la terra tornerà alla forma di nebulosa ed errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.»   

La coscienza di Zeno: nessuna selezione

Il romanzo di Italo Svevo è “facilmente” moderno nel suo apparente profetismo. Il virus autentico che ammorba la terra è l’uomo. E ancora la guerra. La paura della modernità. Nessuna illuminante profezia se guardiamo attraverso il cannocchiale della storia. I misfatti dell’essere umano (o disumano) si ripetono. Prevederli non è originale. Sono orribili repliche teatrali mai uguali eppure simili. Zeno ci racconta che gli animali si sono evoluti e hanno adattato parti del corpo: l’uomo è l’unico che costruisce cose al di fuori di sè. Ha inventato la bomba. L’ordigno, per dirla fedelmente alla Zeno. Non c’è più la selezione naturale teorizzata e notata da Darwin: c’è il debole che usa la forza vile dell’arma. E perde credendo di vincere. La pièce e le parole di Haber raggelano il sangue in platea. C’è un nuovo silenzio che si somma a quello precedente di uditorio educato al Teatro. Tutti, in quell’istante, non sono più agli inizi del secolo a quel tempo di Zeno, ma sbalzati verso il futuro e pertanto di nuovo costretti a pensare al nostro presente indicativo che vede nitido l’orrore dell’Ucraina e della Striscia di Gaza. La necessità di morte e dittatura che è insita nell’uomo Verme (al quale la pièce dà persino un’anima).

Proiezioni nitide di idee

La scenografia è scarna di attrezzeria eppure ricchissima di suggestioni suggerite da proiezioni vive (in movimento) sui fondali bruni e ondulati di scena. A tratti sembrano lunghe ed eleganti gonne nere plissettate. C’è spesso una finestra tonda come un oblò di nave che guarda la città passare di vita. C’è una grande luna che narcisa si piace e si guarda indolente sullo specchio del mare di mezzanotte. Increspato. C’è pioggia che pare un pianto sconsolato. C’è una rosa grandissima che piano smette di vivere, preparandosi cosciente e lenta alla morte. Anche lì la colpa è dell’uomo verme che ne ha troncata la vitalità e non la bellezza che resiste finché può. Interruzione avvenuta nell’atto egoistico di reciderla. Nell’atto scriteriato del possedere. Ma l’uomo non è del tutto inerme al dolore: vive o langue anch’egli senza alcun privilegio o licenza in quel gorgo nauseabondo. Si dilania di domande. Cerca risposte uniche. Non barattabili con altre nuove verità. Poi si vede, tra le onde della tenda, una pila alta, anzi altissima di libriche sono a loro volta (ciascuno) scrigno di altre coscienze; anch’esse scalfite da altrettanti dubbi. Pensieri e a tratti risposte, tatuati per sempre in pagine contro la disattenzione del tempo, che passa e va. Quelli che vede lo spettatore quindi non sono solo semplici fondali o il palliativo sbrigativo di una scenografia che non c’è, ma “idee” che recitano anch’esse lo stesso copione di Codena e Valerio.

La coscienza di Zeno: Alessandro Haber è un superbo Zeno

La regia di Paolo Valerio ha saputo restituire l’umore sveviano. Probabilemente neanche il signor Aron Hector Schmitz ovvero Italo Svevo, fù consapevole sino in fondo di quel capolavoro che stava scrivendo per diletto e non per lavoro. Pubblicato nel ’23 del secolo scorso. Cento anni fa. Alessandro Haber è Zeno. Non ho dubbi. Sa muoversi come il suo personaggio o forse è il personaggio che ha imparato a muoversi come il suo attore. Il limite sparisce. Haber, seppure spesso  rimanga seduto in poltrona, domina lo spazio scenico per intero. Ogni asse di legno. Non indugia in inutili orpelli che avrebbero detratto di modernità il testo centenario. Abbandona (come fa sempre a Teatro) il solito ansioso personaggio che invece porta al cinema da sempre. In compagnia anche Alberto Onofrietti (che interpreta uno Zeno giovane molto credibile e spontaneo), Francesco MigliaccioValentina VioloEster GalazziRiccardo MaranzanaEmanuele FortunatiMeredith Airò FarullaCaterina BenevoliChiara PellegrinGiovanni Schiavo. Bravi tutti ma non c’è sempre una perfetta omegeneità negli stili della recitazione e questo mi distrae.

Ci piacciono i tagli vivi di luce bianca, senza filtri come la verità, di Gigi Saccomandi. Le musiche di Oragravity. I video di Alessandro PapaMarta Crisolini Malatesta ha ben curato costumi e scene.

Spettacolo da vedere.

Info

Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia
Goldenart Production
presentano
ALESSANDRO HABER

LA COSCIENZA DI ZENO

Di Italo Svevo
adattamento Monica Codenae e Paolo Valerio

con Alberto Onofrietti, Francesco Migliaccio
e con Valentina Violo, Ester Galazzi, Riccardo Maranzana, Emanuele Fortunati, Meredith Farulla, Caterina Benevoli, Chiara Pellegrin, Giovanni Schiavo

scene e costumi Marta Crisolini Malatesta
luci Gigi Saccomandi
musiche Oragravity
video Alessandro Papa
movimenti scena Monica Codena

regia PAOLO VALERIO

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