LA CIOCIARA: TEATRO GHIONE: diario di un dolore indelebile

Il Ghione è un altro di quei Teatri che non ha bisogno del sostantivo “Teatro” e accende di luci e vita culturale un quartiere che riposa meritatamente di una pausa soporifera. Di giorno si può incontrare qualche ombrello che guida gruppi sparuti di turisti. In scena dal 9 al 12 novembre “LA CIOCIARA” tratto dal romanzo di Alberto Moravia, nell’adattamento di Annibale Ruccello (morto troppo giovane). La pièce è racconto del dolore acuito anzi procurato dalla guerra e dalla brutalità degli uomini. Lo stupro dei soldati che avrebbero dovuto liberare anziché depredare.

LA CIOCIARA: macchia che non sbiadisce

Per capire affondo il racconto, è doveroso collocare e chiarire il periodo temporale e sopratutto storico. Politico. La pièce racconta di quando le truppe naziste hanno occupato Roma: molti civili scappano per paura delle bombe e si rifugiano altrove. Sono gli sfollati.

Cesira parte per la “sua” vicina Ciociaria. Torna fiduciosa all’innocenza. Si pensa che la guerra sarebbe finita presto. Lì trova i ricordi ancora vividi ma le strade si sono fatte piccole e strette per viverle ancora. Ha sposato un pizzicagnolo di Roma, è vedova da due anni e la città ormai è la sua nuova casa. C’è una palpabile propensione al sacrificio nel romanzo di Moravia: la donna che mangiava una volta al giorno e viveva tra capre e pecore, sposa un “vecchio” per vivere o sopravvivere alla miseria. Adesso porta nella fuga lontana dalle bombe che deformano la vita usuale, il suo bene più prezioso: Rosetta, la giovanissima figlia. Moravia ci racconta di un mondo proletario. Popolare. È quella corrente letteraria e cinematografica che prende il nome di neorealismo perché descrive la realtà. C’è il racconto a parole o a pellicola di un mondo ormai sbiadito, eccetto il ricordo di certe brutalità perpetrate dai goumier: i soldati marocchini inquadrati nel corpo di spedizione francese in Italia durante la “Campagna d’Italia” (voluta dagli alleati per sconfiggere l’Italia fascista e la Wehrmacht tedesca che occupava la penisola). Il luogo dove si svolge la vicenda è la Ciociaria. Il periodo è il maggio del ’44, durante l’operazione “Diadem” intenta a sfondare la linea Gustav di Hitler. La barriera tedesca voleva sbarrare l’avanzare degli alleati, dividendo l’Italia in due. La linea è disegnata da Ortona alla foce del fiume Garigliano (tra Lazio e Campania). Dall’Adriatico al Tirreno. Il tratto più stretto della penisola. Tutto ciò che era a sud era stato liberato. La storia ci dice che la linea fu sfondata il 18 maggio del 1944 e i tedeschi arretrarono a nord verso un’altra linea già esistente. Predisposta. In quel fatidico maggio e in seguito a questa battaglia, la Ciociaria ricorda la gioia della vittoria e della libertà che fu subito opacizzata dai fatti e dalle sue vittime civili. La popolazione, principalmente donne ma persino bambini, anziane e uomini, un prete, furono violentati barbaramente. Le violenze dei carnefici stranieri procurarono oltre a strappi nell’anima che non sarebbero mai più guariti, suicidi, il contagio da sifilide e gonorrea. Solo l’uso dell’americana Penicillina arrestò l’epidemia. Oltre i casi di aborti e suicidi, ci furono casi d’infanticidio dei figli dello stupro. La questione altrettanto grave è che le violenze furono permesse e persino incoraggiate dal comandante francese. Il generale Alphonse Juin diede ai suoi soldati cinquanta ore di libertà per saccheggiare e violentare il territorio: cose e persone. Tra i nordafricani c’erano anche francesi bianchi. Una sorta di diritto di Preda ai danni della popolazione che erano invece venuti a liberare. Le “marocchinate” sono una macchia indelebile della brutalità degli uomini (in quest’orribile episodio francesi e nordafricani) durante la guerra. Intervenne Pio XII che sollecitò Charles de Gaulle. Fu ripreso il generale Juin che rispose che si era provveduto a fucilare quindici militari colti sul fatto (non so se l’abbia fatto davvero) e che altri erano stati condannati ai lavori forzati a vita. Entrò in scena la magistratura francese che avviò molti procedimenti nei confronti dei soldati. La divisione marocchina fu reimpiegata sul fronte tedesco e lì accaddero nuovi casi di stupri. L’uomo non cambia. Ma non cambia neanche l’altro uomo: il giudice, che anziché punire dà nuove possibilità. La brutalità non guarisce perché non è una malattia temporanea ma ingenita.

LA CIOCIARA: recitazione fuori misura

La Messa in scena è di Caterina Costantini: fa tesoro della regia di Aldo Reggiani, scomparso dieci anni fa. È un omaggio all’attore pisano, marito della Costantini. La pièce aveva già debuttato molti anni fa: nell’85. Dunque in realtà non c’è regia. Il regista calibra le intenzioni. Orchestra gli attori. Costantini è fisicamente rapita dal suo personaggio protagonista e non si accorge d’intonazioni abbondanti che non restituiscono il pensiero Moraviano e probabilmente la riscrittura di Annibale Ruccello. Cesira trattiene un livore per tutto il tempo che sono nervi nella voce. Non si avverte quel ritorno alle origini e all’innocenza che invece traspare nel romanzo e anche nel film del 1960 di De Sica (regia) con la Loren. L’adattamento è del regista e di Zavattini. C’è fiducia nella terra, tanto che nella pellicola quando i binari fermano la corsa del treno a causa delle bombe che le hanno distrutte, Cesira, decide di non attendere che siano riparate e continua il suo viaggio a piedi scalzi e valigie sul capo, com’era nella tradizione contadina. La terra non tradisce. E Cesira inforca i piccoli sentieri e strade della Ciociaria. Nel pièce al Ghione non ci sono momenti di dolcezza inequivocabile nei riguardi della figlia o se ci sono, vengono sempre recitati con toni alti. Urla. Pianti. Non c’è misura. L’accento regionale è sempre e solo romano. Il ciociaro quando torna a casa si concede spesso certe originali intonazioni anche per riavvicinarsi alla gente del posto. La carenza di misura riguarda tutti gli attori. Filippo è Armando De Ceccon: ha toni esasperati e immotivati come morso dalla tarantola. La guerra crea squarci nell’anima ma ci devono essere e ci sono momenti più serafici. Anche qui mi piace il personaggio del film doppiato da un mirabile Corrado Gaipa (quello di Burt Lancaster nel Gattopardo). Vincenzo Bocciarelli è Michele personaggio definito nella sinossi “piccolo Pasolini ciociaro” e ci racconta la parabola di Lazzaro e l’importanza dei libri ma lo fa con una pulizia di dizione che non può avere un intellettuale così giovane che è nato in quel lenzuolo di terra dove l’accento avvolge come una coperta spessa. Il fatto che abbia studiato fuori è un alibi troppo flebile. Lo stesso Jean-Paul Belmondo del film fu doppiato da Achille Millo, usando l’accento che ricordava Fondi. Millo era napoletano. Flavia De Stefano è Rosetta: troppo acerba come attrice per un palco così importante. Rimane sempre sullo stesso tono. Lorenza Guerrieri è Concetta: è disinvolta e incarna alla perfezione la donna che tenta di sopravvivere alla brutalità della guerra con espedienti e menzogne, ma non le si chiede di usare neanche lontanamente l’accento della zona. È romana. Non lo fa nessuno eccetto Vincenzo Pellicanò (Tomassino) che rinuncia a certi manierismi d’attore e mi piace. Marco Blanchi è bravo e interpreta scimmiozzo il fascista e un soldato tedesco. Perché usare tuttavia lo stesso attore per due ruoli così importanti non per numero di battute ma dato che rappresentano due figure cardine del controverso periodo storico fatto di belligeranti e cobelligeranti. Italia e Repubblica sociale italiana. Fascisti e Nazisti. Si rischia di generare altra confusione nel pubblico oltre a quella che la storia ha già generato nella solita e disordinata lotta di conquiste.

Le marocchinate escluse dal racconto

Non conosco la riscrittura di Ruccello. Non so se solo in questa messa in scena al Ghione sono stati operati nuovi tagli. In ogni caso non si è dato rilievo alle turpi “Marocchinate”. Nel film irrompe nella piccola chiesa pericolante e aggredita dalle bombe un branco feroce di nordafricani (non solo marocchini) che stuprano Cesira e Rosetta, che lì avevano trovato ricovero. Il romanzo di Moravia ne è fonte.

Il rischio è che la pièce operi un revisionismo storico fuorviante. Sembra che lo stupro sia da imputare ai soldati fascisti: d’altronde era scimmiozzo che aveva buttato l’occhio su Rosetta e l’aveva invitata a venire dove i soldati si erano accampati. Molti soldati fascisti dopo la disfatta scappano meschinamente dalla Ciocioaria ma non stuprano. Sono i goumier che rimangono dopo quel 18 maggio, dopo la vittoria contro i tedeschi e riscuotono il loro riprovevole “Diritto di preda” elargito dal piccolo generale Juin.

La ciociara: scenografie evocative

Le scenografie evocano quei luoghi contadini. Ci sono rovine di muri che nella zona chiamano “macere” e che nella pièce nessuno nomina. Avrebbe aiutato, per quanto piccolo dettaglio a entrare in quel luogo del basso Lazio. Il teatro in vernacolo si serve dei termini del luogo per riesumare usanze, detti, abitudini. E anche qui, è inevitabile il confronto: il film lo fa. Interessanti i tagli di luci e le musiche.

Info

Con Caterina Costantini

Dal romanzo di Alberto Moravia

Regia di Aldo Reggiani

Organizzatore Teatro Ghione

image_pdfSCARICA QUESTO ARTICOLO IN FORMATO PDF