I VICERÈ , è l’epopea scritta dell’Antieroe. In questa riduzione teatrale in scena al Teatro Quirino fino al 4 dicembre (non si sa a opera di chi) dell’omonimo romanzo, si mette al centro Don Blasco della famiglia Uzeda. È la storia di chi indossa il saio monacale per mero interesse, per coprire l’autentica natura di puttaniere, di baro nel gioco e per davvero nella vita, di perfido e di ingannatore. L’abito della chiesa calzato come un alibi che confonde il sempliciotto credente della sacra casa del signore e quindi dei suoi inquilini. Tutti. Buoni o cattivi. Si dissimula il pretestuoso andamento.
La commedia ha lo stile dei grandi film. Dei Kolossal. La narrazione si svolge in tante stanze. Ma la storia, qui, del gretto Don Blasco immiserito da sé stesso, è in realtà anche la storia di tutta una corte di pupi che il benedettino riesce a tenere viva. Batteria di marionette che nel romanzo hanno ognuna più spazio e non disdegnano l’affare losco, conveniente, e che sono insieme specchio e motore di una sofferta gestazione nazionale: gli altri protagonisti più noti e spesso nominati sono Garibaldi, forte e veloce come una folgore (così lo definisce un dialogo dell’opera) e quell’eco lontana ma non troppo di Napoleone III. E poi l’intervento piemontese nella cruenta guerra di Crimea contro i Russi per liberare Sebastopoli, che suona fastidiosamente moderna e che il drammaturgo apostrofa come un cumulo di errori. E sopra ogni cosa c’è la figura mai dimenticata di Cavour e quell’affetto romantico filoborbonico.

I VICERÈ: opera e travaglio del talento e genio
Il Quirino propone ogni anno un cartellone ricco. E a chi (compreso chi vi scrive) lo definisce l’Ambasciata di Sicilia per scelta di autori e interpreti, dico subito che per le ampie e polverose tavole dello storico palco passano autori come Miller, Shakespeare, Molière e con attori provenienti da ogni parte. Ma poi, e non voglio certo contraddirmi, si torna ai grandi amori: Pirandello, Verga. La Prima del 29 torna a quella Catania dei Viceré di Federico De Roberto.
In realtà il drammaturgo nasce a Napoli ma è a Catania che vive e muore in solitudine nel ’27. Una vita dedicata a tante opere anche di matrice verghiana e al suo capolavoro “I Vicerè” che gli costò le aspre critiche dei contemporanei dell’epoca. Si ricordi pure che il travagliato lavoro fu poi pubblicato in un delicato momento storico: nell’anno dello scandalo della Banca romana e della repressione nel sangue dei fasci siciliani. L’autore racconta ventisette anni: dal 1855 al 1882. Il Teatro per questo ritorno alla Sicilia sceglie uno dei suoi migliori interpreti: Pippo Pattavina, che quella Catania non ha mai tradita né col cuore, né col corpo, dato che è lì che vive tra il profumo di zagara e il sapore fresco e gentile di granite alla mandorla. Lo si incontra in via Etnea e lui ricambia il saluto con il suo sorriso di baffi canuti.
I VICERÈ, le tante stanze della vicenda
La scena è ricca e imbandita di dettagli anch’essi preziosi. Sulle quinte chi ha ideato il disegno luci di concerto con Guglielmo Ferro (che firma la regia) staglia, proiettandole, le tante stanze simbolo della storia: il palazzo degli Uzeda, la Villa Belvedere, probabilmente un convento di frati, lo studio di Don Giacomo, la garçonnière di Don Raimondo e poi quel non luogo del finale con le marionette in bella vista.
A contribuire e suscitare la sorpresa c’è quel gioco di ombre che dà e toglie l’aria sinistra, tuttavia mai onesta, a tutti i personaggi del racconto. Fasci che coprono e scoprono facce e corpi. Vicende abilmente intrecciate dal De Roberto bistrattato quando con lui c’era anche la vita e passione per l’arte della scrittura. Dietro un grande velatino a tenda, tavoli ricchi di frutta vera, salotti, sedie di ferro battuto sono mossi da servi di corte e di scena. È un mirabile gioco che ogni volta si svela a sorpresa perché al dipanarsi del velatino c’è una nuova stanza simbolo della vicenda che si racconta.
I VICERÈ: racconto nitido della verità
Pippo Pattavina è conferma di qualità. L’avevo già recensito in un altro affresco di quella saga dei pupi cara al siciliano Pirandello: Uno, nessuno e centomila. Qui è il lurido Don Blasco: personaggio infido, mai sazio, che allunga le sue mani ossute su carni giovani e sulle fortune della famiglia Uzeda. Lo fa con raziocinio, da stratega, plasmando adepti come creta. Seguaci di una religione laica: quella dell’interesse e del denaro. Quella degli affamati del potere a qualsiasi costo. Pattavina nel saio di Don Blasco urla a tutti che sono stati minchionati e che devono reagire. Rivoltarsi. Opporsi al testamento del de cuis, la principessa Teresa Uzeda di Francalanza, crudele e dispotica che ha infranto i desiderata dei più avidi. E in questa cloaca maleodorante di residui umani, arriva fresca come una speranza contro la turpitudine la voce stridula di Consalvo che ha la colpa ingenua, non ancora educata, di “dire solo la verità”. L’onestà non è lecita a casa dei Viceré spagnoli.
I VICERÈ: dinastia dell’odio spaventosamente moderna
Don Giacomo per bocca di Rosario Minardi dice a sé stesso che l’odio fortifica. Non l’amore. Lo dice per non dimenticare in uno slancio esistenzialista e nel ricordo di frammenti d’educazione materna, quando veniva rinchiuso per divenire forte e quell’obbrobrio d’uomo che è. È lui che inventerà falsi debiti e riesumerà cambiali già pagate per liquidare il fratello e chiunque si frapponga tra i suoi progetti e la loro realizzazione. Si dice negli impeti di un dialogo per bocca di una delle donne di casa Uzeda (Donna Ferdinanda) che non c’è paura dell’altra vita. E gli Uzeda ci appaiono predoni spagnoli. Mala razza. E Pattavina ce lo conferma nel meraviglioso monologo di fine scena dove si eleva a narratore, quasi super partes senza più quella calata siciliana, lì centrale e in mezzo ai personaggi che adesso si svelano a marionette. «La storia è monotona e non cambia. Gli uomini non cambiano». È come dire che tutto cambia perché resti tutto immutato. In quell’istante e monologo, la foto sbiadita e in bianco e nero dei reggenti reali, acquista colori e attualità. Questa storia fatta di prestanomi, di politici corrotti, preti mal vestiti di luccicanti paramenti liturgici, mi pare spaventosamente moderna. C’è l’affanno e la corsa di sempre di chi anziché servire le istituzioni, se ne serve senza pudicizia.
I VICERÈ di Ferro: buona messinscena del regista che sbava sullo Stile disomogeneo degli attori
Il signor Pattavina è probabilmente il miglior attore siciliano della sua annata (classe 1938) che c’è oggi sulla piazza. Porta sul palco romano del Quirino tutto il sapore (amaro in questo caso per il personaggio affidatogli) del continente Sicilia. La verità che qualcuno di recente ha cercato di emulare, non riuscendoci, in quello stesso palco e con uno assai sperimentale Berretto a sonagli.
La compagnia che Ferro (figlio d’arte di quell’immenso Turi) mette insieme ma non d’accordo, è fatta di attori bravi ma con stili diversi. C’è chi sa nascondere (senza che occorra) l’accento e non capisco perché dato che De Roberto lo dice chiaro che tutto si svolge in quella Catania che ha adottato drammaturgo e storia. Qualcuno ha uno stile naturale, altri naturalistico, altri molto enfatico; eppure sono tutti figli della stessa terra e altri persino famiglia. Don Gaspare Uzeda, interpretato ottimamente da Sebastiano Tringali, recita in perfetto italiano. Ottima dizione ma è anche lui un Uzeda di Sicilia anche se deputato nazionale e con idee confusamente liberali, ma forse solo questo dovrebbe giustificare quella parlata senza inflessioni? Proprio lui che, come lo descrive l’autore, non è in grado di sostenere neanche un discorso in pubblico qui grazie al raffinato attore di mestiere guadagna una pulizia di voce ed espressioni degne d’encomio?
Quindi, ci sembra che anche questi grandi spettacoli spesso soffrano della solita affezione del regista verso i suoi attori soliti, certo di compagnia, che gli danno sicurezza, affidabilità ma che a volte non vestono con misura maniacale la fisicità e misura sartoriale del personaggio o le sue corde vocali o gli accenti regionali senza per forza varcare la soglia del vernacolo. Magari è una scelta o licenza di Ferro? Naturalmente è un tecnicismo che non sminuisce una pièce da vedere e godere che restituisce una onorificenza post mortem a quel grande genio che è stato Federico De Roberto.
I VICERÈ – cast, info e contatti
29 novembre 4 dicembre
Progetto Teatrando
presenta
PIPPO PATTAVINA
I VICERÉ
Liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Federico De Roberto
con
SEBASTIANO TRINGALI
e con
Rosario Minardi, Francesca Ferro, Rosario Marco Amato, Nadia De Luca, Giampaolo Romania, Francesco Maria Attardi, Elisa Franco, Pietro Barbaro, Giovanni Fontanrosa, Alessandra Falci, Giuseppe Parisi
regia GUGLIELMO FERRO