Ci sono Teatri che amano nascondersi tra le macerie polverose del quotidiano. Tra gli scatoloni dimenticati di qualche vita che arriva o che trasloca. Ma poi quei Teatri sanno svelarsi in tutto il loro splendore di scrigno fascinoso. È quello che mi capita quando conquisto l’ingresso del delizioso Teatro Lo Spazio. Le luci sono accese solo nel fondo di via Locri; durante la via il buio ha avuto la meglio. Ma basta solo avere la pazienza dei passi. Varcata la soglia c’è quel brusio luminoso di Teatro: il pubblico, il botteghino, il profumo degli attori che poco prima avranno indugiato, fermi, col desiderio di vedere arrivare tante carrozze e cavalli a lasciare il nobile pubblico e i più prosaici bisogni. “Merda, merda, merda!!!” si augurano gli attori a ogni replica, perché vuol dire che tante carrozze e cavalli (appunto) passeranno a lasciare pubblico. L’attesa per lo spettacolo di Gianni De Feo c’è. Si chiacchiera. C’è curiosità: e non è forse questo che anima ogni debutto e replica? Qui si mette in scena la ricerca dell’anima ma non di quello che deve diventare, ma di quello che essa è già. La nascita e la vita subito dopo, soprattutto, con i suoi tanti condizionamenti: ci distrae da ciò che siamo davvero. Paolo Vanacore (l’autore) rievoca il mito del Daimon, che è figlio di un altro mito più remoto, quello platonico di Er. Aleggia nel palco una divinità che è guida con l’intento di togliere polvere da quel disegno che l’anima aveva scelto all’origine.

DAIMON – L’ULTIMO CANTO DI JOHN KEATS: QUEL VOLO BREVE DI FOGLIA
Nel racconto di Vanacore (drammaturgo colto che scaccia certe commediole) c’è il profumo intenso e onesto dell’oceano. C’è l’urgenza inevitabile dell’emersione. Dunque come poderoso simbolo sceglie l’acqua. Anzi l’oceano, che è per antonomasia la concentrazione migliore dell’elemento e lo mette al servizio della sua metafora narrativa. Poi sceglie Atlantic city per conferire al racconto un gusto esotico che non guasta. Sapore di cose lontane che hanno il valore della similitudine e valore probatorio se confrontate alle vite a noi più familiari. Vicine. Il mito del Daimon di James Hillman (protagonista della storia) e il fatto che esso è la rievocazione del pensiero di John Keats e ancora prima di Platone, e infine il dato innegabile che certe questioni accadono in altri continenti: conferisce alla vicenda quel valore universale. Inconfutabile. Se anche in New Jesey è così, allora sarà vero. Si sa quanta fascinazione subiamo dalla letteratura e dal cinema americano. Si dimostra, dunque, che mentre tutto cambia, nulla in realtà cambia. E intanto Hillman passeggia nei pressi della Piramide Cestia e regala con rapidi calci, brevi voli di leggerezza alle foglie morte. C’è una somiglianza tra le foglie e la vita degli esseri umani: entrambi destinati a sparire. Liquefarsi della loro esistenza. Allora in questa parentesi di vite (di foglie ed esseri umani) c’è ancora un anelito di vita.

DAIMON – L’ULTIMO CANTO DI JOHN KEATS: IL RACCONTO DEI VUOTI Esistenziali
Non c’è l’Hotel di Atlantic city nelle videoinstallazioni di Roberto Rinaldi, non c’è quella mitica costa orientale che vede l’oceano Atlantico; ma De Feo riesce a farceli vedere in maniera mirabile. È lì che la vita del piccolo Hillman cresce e si guasta inevitabilmente. La nascita è un istante troppo breve per farci vedere bene il mondo: il resto è solo rapida memoria, così scriveva Glück. In quel luogo di transito e vacanza, il personaggio divora immagini, scale. Crea spazi virtuali e amicizie effimere o conoscenze che poi si dissolvono. Ci sono mani che salutano come un’eco lontana. Una scia di nave. È una batteria indistinta di facce. Hillman rapisce sorrisi, sguardi, ma evaporerà tutto quando finirà la vacanza degli avventori famelici. C’è la luce filtrata dalle grandi vetrate dell’Hotel americano, che riverberano l’odore forte dell’oceano e instillano, lento, quel bisogno di emersione. L’anima è là fuori. Sommersa. Da qualche parte. Nel fondale. Intanto incalza il racconto di grandi vuoti di solitudine. Hillman non è solo, ma in perenne compagnia della sua solitudine.
DAIMON – L’ULTIMO CANTO DI JOHN KEATS: L’EPOCA SCRITErIATA DELLA RAGIONEVOLEZZA
Hillman è discepolo di Keats. I suoi saggi sono studiati. È tra i cento uomini al mondo capace di cambiare il pensiero di altri uomini. Eppure non è un profeta. Neanche un mistico: ha solo abbandonata l’epoca della ragionevolezza che lui stesso contrapponeva alla bizzarria del vivere il proprio tempo. Ha preferito la bellezza. Il drammaturgo rinnova l’invito greco a lasciarsi andare. E qui mi viene in mente l’invito pirandelliano di lasciarsi “prendere”. La bellezza è intorno a noi e l’abbiamo dimenticata, umiliata per colpa di scelte arroganti. Di convenienza. Opportunistiche.
DAIMON – L’ULTIMO CANTO DI JOHN KEATS: REDIVIVUS
Il testo è ben scritto. Ogni parola è un fendente che insanguina il pubblico più sensibile, perché nessuno in sala ha avuto il coraggio di seguire quei saggi consigli. Si vive tra le strade anguste e strette di città, lontani dalla ricerca del Daimon. C’è l’invito precipuo alla rinascita. Ma io avverto soprattutto l’invito al vivere. I latini dicevano: Redivivus. Tornare alla vita restaurati. Resuscitati. La questione a mio avviso non è rinascere perché si ripeterebbe all’infinito l’errore di Hillman. La nascita è un lasso temporale troppo breve. Poi è solo memoria. Dunque è in vita che bisogna resuscitare anzi quando è già trascorsa parte della vita, quando il cumulo degli errori umani ci ha fatto capire che siamo noi stessi gli assassini della nostra anima. Vanacore, affida al sogno l’altra metafora della sua opera. Il non luogo dove vivere liberi e in simbiosi con la nativa coscienza. La vita consueta priva dell’ossigeno il desiderio durante la veglia. Inaridisce la pianta e i suoi germogli. De Feo interpreta il pensiero di Vanacore con movimenti fluidi e mi restituisce non più eterea ma come materia palpabile l’idea definibile e dunque definita del limbo. Il tempo sospeso.
DAIMON – L’ULTIMO CANTO DI JOHN KEATS: SGUARDO DA CATTURARE
Il fine drammaturgo, mi convince infine della sua tesi che permea tutto il racconto, mettendo in bocca al bravo De Feo, l’immagine del flusso e dello “sguardo”. C’è una fiumana di umanità che corre e scorre nei vicoli arteriosi di città, ma ogni tanto capita di catturare uno sguardo. C’è una corrispondenza sacrale. Un lampo elettrico. C’è la promessa dell’amore contenuta negli occhi: sentimento e valore per cui vale davvero la pena vivere e morire. Occorre ritrovarsi. Cercare o costruire e dunque coltivare il giardino segreto dove fare la vita. L’anima è già lì. Non è cambiata. È solo invisibile forse come quel giardino. Esso forse esiste già. È solo invisibile, ma occorre annaffiarlo. Fargli albeggiare e tramontare il sole. Occorre innestarci l’amore.

DAIMON – L’ULTIMO CANTO DI JOHN KEATS: UNO SPETTACOLO DAL BUON SAPORE
De Feo mi piace. L’ho già recensito come attore e come regista. Lo seguo volentieri. Esco dal Teatro Lo Spazio con un buon sapore in bocca e nelle orecchie. Quindi invito tutti ma proprio tutti a correre e godere di uno spettacolo suadente. Positivo. Ma al critico si chiede l’ingrato compito di notare pregi e difetti di ogni rappresentazione. De Feo utilizza una gestualità che spesso mi mette in imbarazzo. Sento scomoda persino la poltrona dove siedo. Anche quando apre la sua valigia d’attore usa gesti innaturali. Di un teatro ormai obsoleto. Ricercato. La sua recitazione è cadenzata sulla musica. Le battute sembrano scritte su di uno spartito piuttosto che sul copione. È una sorta di RAP teatrale. Non è naturale. Ogni parola è “recitata” e a sincrono con un nuovo gesto. Poi ci sono momenti in cui l’attore torna più colloquiale. Ma mai vero. Ci ricorda continuamente che è Teatro. Non è vita vera. Ma se si trattasse invece di una scelta registica: allora sarebbe ben studiata. C’è una misura che non mi piace ma che certamente non è lasciata al caso. Devo dire che un attore non dovrebbe mai auto dirigersi. Non c’è specchio al mondo che possa restituire l’onestà di quello che arriva alla platea. Ho assistito a uno spettacolo completo. De Feo, camaleontico, è da solo sul palco. Recita, canta, balla, si muove. Ma anche qui mi sembra che utilizzi la sua personale misura. È come un esercizio d’attore. Per dirla in altri termini: «adesso vi faccio vedere tutto quello che so fare!». Una sorta di onemanshow. La scelta dei brani, ben cantanti anzi interpretati (da cantante e attore) non sempre sono in linea con l’epoca. Il protagonista ci dice più volte che siamo a cento anni dalla morte a Roma del poeta inglese, quindi nel 1921? Mi confondono i brani di Giuni Russo e Franco Battiato più recenti. C’è da chiedersi: sono brani ai quali De Feo è affezionato? I cosiddetti Cavalli di battaglia? Oppure vuole sottolineare che certi brani non hanno tempo? Può darsi… Ma mi mettono a disagio, distraggono. Devo fare una gran fatica dato che mi vengono in mente i due artisti siciliani contemporanei. Poi c’è un brano dove c’è una voce femminile incisa, non in scena, e l’attore naturalmente attende di spalle (ma questo non è un problema) che finisca la strofa. E poi certi interminabili interventi del grande attore Leo Gullotta. Quindi: ho visto uno spettacolo di Teatro colto, ricercato, recitato in modo puntuale seppure in uno stile che non amo: ma se certe misure fossero state tarate diversamente avrei potuto scrivere di uno spettacolo sublime. Perfetto. Mi rimane l’idea di un attore che ha creduto alla filosofia del drammaturgo sino a sostituirsi al personaggio stesso. Ha trovato, De Feo, e svelato il proprio essere, il Daimon, e ce lo ha confidato intimamente indossando l’ultimo costume di scena. In ogni caso vi invito a correre e non perdervi questa notevole pièce.
Info
DAIMON – L’ULTIMO CANTO di JOHN KEATS
di Paolo Vanacore
diretto e interpretato da Gianni De Feo
con l’amichevole partecipazione in voce di Leo Gullotta
arrangiamenti musicali di Alessandro Panatteri
videoarte Roberto Rinaldi
Produzione Ipazia Production
Ufficio Stampa Andrea Cavazzini, Francesca Siciliano
DA MERCOLEDÍ 2 A DOMENICA 5 FEBBRAIO 2023
TEATRO LO SPAZIO