Fino al 17 dicembre, con repliche dal martedì alla domenica, l’intimo spazio del Teatro Fabbrichino, “costola” del più conosciuto Fabbricone, propone, in Prima Nazionale, il nuovo spettacolo prodotto dal Teatro Metastasio di Prato che vede protagonisti Valentina Banci e Fulvio Cauteruccio per la regia di Roberto Latini.
Più che uno spettacolo una vera e propria esperienza teatrale in cui il testo di Heiner Müller, ispirato al romanzo settecentesco Les liasons dangereuses di Pierre Choderlos de Laclos, proietta lo spettatore in una dimensione atemporale e a-spaziale in cui resta l’unica certezza che ogni elemento è parte integrante di una recitazione inevitabile e necessaria.
Sono le vicissitudini di Valmont e della Marchesa de Merteuil, protagonisti del romanzo francese cui si è ispirato Müller, a costituire il pretesto per la rappresentazione: una coppia di infaticabili libertini, che non si arrendono all’inesorabilità del tempo, pianificando nuove e talvolta impossibili conquiste amorose, sono i protagonisti al centro della scena. Ed è proprio al centro dello spazio scenico che si svolgono le azioni alle quali il desiderio di conquista di una virginale novizia, nipote della marchesa, e di una più attempata Madame de Tourvel, da parte di Valmont, fa da sfondo. E’ perciò che sin dall’ingresso nel teatro, lo spettatore ha la percezione di non essere lì solamente per assistere ma per diventare attore lui stesso; non esistono il boccascena e il buio della platea ad isolare il pubblico e a trasformarlo in un osservatore passivo. Un osservatore il cui sguardo non deve quindi essere nascosto ma anzi esaltato; un effetto, questo, ottenuto per mezzo di una precisa scelta registica e scenografica che non sarà qui svelata per lasciare ai futuri spettatori la curiosità di scoprirla.
Con l’abbassamento delle luci si è catapultati in una dimensione che ricorda molto le atmosfere ipocritamente ambigue di Eyes Wide Shut di Kubrick, in cui la visione diventa una forma di voyeurismo cui non ci si può sottrarre. E i protagonisti, come ogni libertino che si rispetti, non si nascondono ma fanno sfoggio dei loro desideri e delle loro pulsioni, a partire dai costumi che indossano, curati da Anna Maria Clemente. Al fine di annullare ogni riferimento temporale, Valentina Banci e Fulvio Cauteruccio sono travestiti, rispettivamente, da Wonder Woman e da Superman alle estremità di un lungo tavolo rettangolare che, come nell’immaginario di un pranzo aristocratico, li allontana per annullare ogni possibile contatto fisico. Nonostante l’isolamento che li caratterizza, i personaggi danno vita ad uno scambio di battute, pensieri, gesti, azioni che, grazie ai pochi ed essenziali oggetti in scena, dimostrano la necessità inevitabile di una relazione, di un dialogo, anche se tra due solitudini. Le diverse aree semantiche, cui si riferisce il testo, e la eterogeneità dei movimenti contribuiscono a distruggere ogni forma mentis dettata dal pudore o dal senso comune; ogni elemento permette allo spettatore di aprirsi a vivere un’esperienza priva di infingimenti in cui ogni gesto è possibile e mai fuori contesto.
Perciò, anche quando la scena si sposta sopra il tavolo, in un gioco di continui scambi ed equilibri tra i personaggi, lo stupore lascia lo spazio al desiderio di spiare gli sviluppi di una trama che non è protagonista ma solo pretesto per dimostrare una verità fondamentale: cos’altro si può fare se non recitare? Una verità che invece di istituire un dogma, instilla un dubbio alimentato dalle scelte sceniche le quali impediscono dall’inizio alla fine di uscire dalla finzione. A partire dalle posate e dai costumi da supereroi fino ai microfoni e ai copioni cartacei recitati nella seconda parte, in cui si lascia spazio a costumi borghesi, gli attori non dimostrano mai di essere totalmente permeati dai personaggi e questo permette loro di scambiarsi liberamente i ruoli, nonostante il loro sesso.
A ciò si aggiunge il fatto che tra la prima e la seconda parte, entrano in scena dall’alto dei microfoni e come in uno studio di doppiaggio i due attori iniziano a recitare un copione scritto senza nessun cambio né di registro né di timbro vocale.
Il fatto che Valentina Banci sia diventata una marchesa ispirata alla Uma Thurman di “Pulp Fiction” e che Fulvio Cauteruccio ricordi il Servillo de “La grande bellezza” non induce ad un cambio nella modulazione delle voci o dei gesti: l’esigenza della recitazione e la necessità del rapporto tra due solitudini restano inalterate e lo spettatore-attore non deve dimenticarsene. L’equilibrio tra le due dimensioni di realtà e finzione è molto instabile e risulta fondamentale mantenerlo per non finire nella vasca degli squali efficacemente rappresentata da una circonferenza di LED lungo la quale la caratteristica pinna triangolare ruota irrefrenabilmente. Tale meccanismo è alfine così ben oliato che al momento dell’amplesso tra Valmont e la vergine, e addirittura durante la tragica fine dei protagonisti, lo spettatore è oramai così consapevole della “recitazione” in corso da non percepire nessun coinvolgimento emotivo; nemmeno i suoni ed i gesti che provengono da bocca e corpo degli attori sono sufficienti tanto che al momento in cui le luci si spengono, nessuno dei presenti ha l’impressione di tornare “attore della propria vita” perché in realtà la recitazione non è mai davvero terminata.
Il percorso attraverso il quale la regia di Roberto Latini ci accompagna è complesso e capace di distruggere il comune modo di pensare e di vedere il mondo. Il linguaggio e le immagini fornite dal testo di Müller richiamano una sensualità e una fisicità che oscillano tra l’erotismo della letteratura settecentesca alla De Sade fino a doppi sensi degni di una “volgarità” più contemporanea. Entrambi i registri linguistici sono abilmente manovrati dai due attori in scena: Valentina Banci interpreta una marchesa che esalta la propria fisicità e la propria bellezza con naturalezza, manovrandola come fosse una Giuditta di Klimt, spudorata e provocante; il corpo e la bocca sono capaci di divincolarsi con grande maestria tra i vari registri e confermano una rilevante capacità di predominare la scena cui la stessa Banci ha abituato gli spettatori anche in altre esibizioni, senza perciò deluderli neanche in questa occasione. Al suo fianco Fulvio Cauteruccio ha l’abilità di rappresentare il ruolo di vittima che è definito nel testo originale della pièce con movimenti meno fluidi e un linguaggio più ingenuo che risultano funzionali all’interpretazione dell’uomo Valmont, un “uomo per difetto” come la marchesa sentenzia nella prima parte dello spettacolo. In un continuo gioco di equilibri, di metateatro, di solitudini che si trovano per poi allontanarsi di nuovo, in una visione vagamente pirandelliana della società, i due attori si bilanciano con notevole dimestichezza, sintomo di un’affinità fondamentale per la riuscita della messa in scena.
Un tale mosaico di sensazioni, una tale molteplicità di livelli interpretativi, una tale varietà di registri impediscono di esaurire l’esperienza suggerita da Quartett tra le mura dello spazio teatrale: anche quando si getta la maschera dell’attore, la recitazione non finisce e continua con tutti gli interrogativi che lo spettacolo lascia nello spettatore per costringerlo a riflettere sulla necessità di abbattere il muro dell’ipocrisia e del senso comune al fine di esplorare le infinite potenzialità che corpo e mente sono costretti a nascondere.
Info:
QUARTETT di Heiner Müller
traduzione Saverio Vertone
regia ROBERTO LATINI
musiche Gianluca Misiti
scena Luca Baldini
costumi Anna Maria Clemente
luci Roberto Innocenti
assistente alla regia PierGiuseppe Di Tanno
con Valentina Banci, Fulvio Cauteruccio
produzione Teatro Metastasio di Prato
Teatro Fabbricone, Prato
2 dicembre 2017