QUALCUNO DI TROPPO@Teatro degli audaci: un triangolo inedito

Il 29 novembre ha debuttato al Teatro degli Audaci la pièce “Qualcuno di Troppo” di Mario Biondino e Andrea Lo Vecchio, diretta da Flavio Marigliano; le repliche sono previste fino al 9 dicembre. In scena oltre gli autori: Andrea De Rosa e Flavia Martino.

Il sipario rosso porpora del Teatro, s’apre su di una commedia moderna perché figlia dei nostri tempi e delle voluttà dell’essere umano d’ogni sesso ed estrazione sociale e, a pensarci bene, d’ogni epoca… Una coppia vive e muore schiacciata ma non del tutto, dai rancori familiari vomitati con veemenza in un terrazzo di città: sopra un palazzo e sotto il cielo probabilmente di una sera di primavera o forse d’estate. Il terrazzo è quello di un facoltoso medico ed è la scena unica dove si svolge il racconto ed è lì che accade ogni cosa durante l’ora e mezza di spettacolo. I due sono stanchi, quasi esausti della loro vita coniugale: cercano e trovano il modo per anestetizzare la loro indolenza per il matrimonio e la convivenza quotidiana. La soluzione è Renato: sorpresa nella sorpresa per tutti: personaggi e pubblico. Alfio, il marito, è un medico spregiudicato e maschilista, che compra tutto e tutti e dirige il suo micromondo con un telecomando portentoso a forma di cellulare. Gli squilli quasi cadenzati del telefono sono il divertente tormentone della pièce. Elena è la moglie annoiata in cerca della sua femminilità che tenta di sfuggire ai diktat intollerabili del marito padrone. Renato è l’amico della moglie e non solo… Eppure sia Alfio che Elena hanno una voce, anzi “la voce della coscienza” che parla loro all’orecchio e dispensa pillole laconiche e lapidarie di saggezza durante la rappresentazione, e come una pietra miliare l’apre e la conclude come a indicare la retta strada.

Il messaggio che arriva, ma non è il solo, è che la società borghese calza con maestria la sua maschera d’uso, ma dentro le mura domestiche o il perimetro di un terrazzo nella specie, cova vizi e desideri repressi che sfoga con persone intime: il coniuge, il collaboratore al lavoro. Nella società dove nessun ascolta il suo simile, le persone che conosciamo diventano gli unici soggetti ai quali confidare i vizi nascosti e dove sperimentarli, anche quando sarebbe conveniente guardare lontano. La pièce, con un finale a sorpresa già suggerito all’inizio del secondo atto, stravolgerà le convinzioni della morale pubblica che ritiene ovvie certe questioni senza consultare l’individuo nel suo personalissimo mondo interiore. Durante la messa in scena emerge una brama di bisogni che mettono in crisi anche “la voce della coscienza” che alla fine prende voce per davvero e si fa sentire da tutti, compreso il pubblico con il quale ha il dialogo più sincero sin dalle prime battute.

Gli attori sono eterogenei, presentano caratteristiche professionali molto distanti tanto da nuocere alla magia che il Teatro ha l’obbligo di suscitare nel pubblico. Mario Biodino (Alfio) si muove con disinvoltura sul palco e incarna le turbe dell’uomo che tutto vuole e si agita spinto dall’istinto dell’animale cacciatore nella perenne soddisfazione delle sue pulsioni sessuali. Buona dizione e presenza scenica; sorprende e diverte quando interpreta vari personaggi in un’unica telefonata. Una delle tante. Flavia Martino (Elena) incarna con la sua fisicità statuaria e la cura del corpo, la donna che cresce ma che ha anche paura di invecchiare e che vuole tutto dalla vita prima che la vita stessa finisca. Non arriva mai a picchi di esasperazione recitativa anche quando la scena lo richiede a causa degli accadimenti grotteschi e critici che raramente lasciano insensibili e serafici, specie in una messa in scena. Andrea Lo Vecchio (Renato) è la nota di contrappunto, è lontano dallo stile di Biondino, a tratti più moderno, ma scivola troppo su intercalari regionali, dunque l’impressione non è quella d’avere da una parte il collaboratore dello studio medico e dall’altra il ricco medico e la sua consorte (come probabilmente nell’idea registica di Marigliani) ma purtroppo quella d’avere attori provenienti da esperienze professionali diverse: teatro classico, impegnato da una parte e cabaret dall’altro. Figura dolce e rassicurante quella della “coscienza” interpretata da Andrea Lo Vecchio, il più anziano per età ma il più giovane d’esperienza. Lo Vecchio viene dal mondo delle produzioni e si cimenta per la terza volta come attore; ha le fisic du role , i capelli imbiancati dalla natura, dagli anni e dall’esperienza: lunghi come forse li porterebbe un angelo sopra le miserie degli esseri umani.
Tutte qualità che permettono al pubblico più attento ed esigente di perdonare gli errori di dizione che denunciano la sua provenienza nordica. La voce… non dovrebbe averne. Gli perdoneremo per l’empatia che ha suscitato, l’assenza come personaggio quando non ha battute ma rimane sul palco come da copione e il suo scrutare il pubblico nel buio della sala e di continuo anche quando non gli si rivolge.

La commedia manca di ritmo specie nel primo atto dove i due coniugi hanno una rabbia serafica ma poi, come probabilmente voluto dagli autori e dal regista, si movimenta per contenuti e interpretazione nel secondo atto, senza però mai arrivare ai picchi propri delle commedie comiche. Avremmo, come pubblico, voluto ricevere qualche tono più alto, naturalmente umano a chi è costretto dentro una gabbia da cui sembra impossibile fuggire se non con bugie e compromessi; in ogni caso la recitazione è fluida e piacevole e la serata è volata.

La scenografia è essenziale, scarna ma rende al pubblico l’ambientazione della messa in scena. Lo squillo del cellulare, unico suono ridondante, è troppo alto e scollega lo spettatore dalla finzione necessaria.

Spettacolo consigliato a chi vuole ridere e riflettere sull’essere umano: sulla sua evoluzione o involuzione.

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