PENTESILEA VS ACHILLE @Teatro Argot Studio: Un mito post-moderno

Continuiamo a raccontarvi il Festival INVENTARIA, ancora in scena fino al 13 giugno (vedi il nostro calendario per gli spettacoli del 9 e 10 giugno).
Il 28 maggio è andato in scena al Teatro Argot, PENTESILEA VS ACHILLE, di Francesco Randazzo, con Cinzia Maccagnano, Luna Marongiu e Cristina Putignano, regia di Cinzia Maccagnano, prima nazionale.

Una cupola di stoffa bianca, descriveva un ombrello poggiato su un’asta, sulla sinistra della scena. A metà del palco, per tutta la sua larghezza, calava un leggero telo in plastica. Tre donne praticavano la scena: Cinzia Maccagnano, anche regista, Luna Marongiu e Cristina Putignano; frammentavano un unico corpo, quello di Pentesilea o quello di Achille. Quello di entrambi. Uno, due, tripli e multipli. Il mito arcaico che vede Achille uccidere Pentesilea sotto le mura di Troia e il conseguente atto di necrofilia, è stato rivisitato criticamente dalla consapevole e poetica penna di Francesco Randazzo, autore di un testo assolutamente contemporaneo.

Pentesilea, regina delle amazzoni, nei tre abiti uguali delle attrici, è stata connotata visivamente attraverso delle fasce nere, sovrapposte a delle canottiere grigie in modo tale che, incrociate, lasciavano libero uno dei seni e costretto l’altro. Nessuna nudità (solo alla fine), solo la trasparenza della forma.

Fulcro tematico: la questione dell’identità. Si è parlato di maschile e femminile: d’altra parte, tanto quanto, già nel mito, Pentesilea nelle vesti di guerriera fu scambiata da Achille per uomo fino al momento della morte, così, quando precedentemente Teti cercò di impedire la partecipazione del figlio alla guerra di Troia, lo travestì da donna. Maschile e femminile come parti dell’uno, dell’individuo. Accettare questa doppiezza come insita nella natura umana, fa detonare il concetto stesso di identità o identificazione, ci mette davanti all’impossibilità di nominazione. Umanità: qualcosa di ampio, dai confini fluidi, concede collocazione rispetto all’alterità, alla diversità, alla varietà, ma non è gabbia di definizione identitaria. Ecco allora che tanto quanto Achille uccise Pentesilea, così Pentesilea diede la morte ad Achille. Così come Achille possedette fisicamente Pentesilea anche Pentesilea prese Achille. L’amore e la morte, allacciati l’un l’altro come il maschile e il femminile, descrivono i margini dell’uno, della completezza e ne negano contemporaneamente la possibilità di sopravvivenza. Per osteggiare la morte questi opposti non devono essere concepiti in maniera statica, fotografati nell’immobilità dell’attimo (non a caso nella descrizione dello spettacolo si parla di opera cinematografica), ma colti nel dinamismo dialettico del presente assoluto garantito dalla classicità del mito.

I linguaggi scenici scelti dalla regia sono stati anch’essi, non a caso, plurali. Primariamente lo spettacolo accadeva nell’orecchio: la dimensione acustico-ritmica, assolutamente immersiva, composta dalle musiche, per lo più originali, dalle voci: naturali, preregistrate e emesse al microfono, suggestionava l’orecchio dello spettatore; simpateticamente veniva poi contagiato l’occhio e, tattilmente, l’intero corpo. Questo ambiente acustico era assecondato, da un punto di vista ottico, dal movimento scenico delle tre attrici, continuo e variato su partiture fisiche vicine alla danza, tanto che, anche nell’immobilità del corpo, si potevano scorgere, amplificate, le invisibili vibrazioni, tattilmente appunto. Immagini filmiche e figure luminescenti, colorate, erano contemporaneamente proiettate sui corpi delle tre, sulla trasparenza del leggerissimo telo, spesso contemporaneamente mosso dai corpi danzanti, corpi che avvicinandosi o allontanandosi dietro quella stessa membrana, creavano, attraverso una materiale artigianalità, effetti di dissolvenza fantasmagorici.

Potenti gli oggetti di scena utilizzati, come un’enorme  e principesca gonna nera, lucida, su cui erano stati ricavati tre punti vita per consentire alle tre attrici di indossarla contemporaneamente e creare un’efficace trasposizione visiva della molteplicità dell’essere. Rivoltata, la gonna diventava rosa confetto, luminosissima. Un lunghissimo telo bianco: mantello, corda di salvataggio, abito (da sposa?) era anche schermo di proiezione.

Le tre artiste in scena, perfettamente accordate, sono state eccellenti nel sostenere partiture fisiche e sonore molto complesse. Vocalità particolarissime e distinte le caratterizzavano, creando a volte contrasti e attriti acustici dilanianti, proporzionalmente alla presa di coscienza che l’io aveva delle proprie drammatiche fratture; riverberando altre volte in sinfonie armonizzate, quasi canti.Una sfida difficile per le attrici e per il pubblico. La musica, la poesia, la danza, richiedono allo spettatore un livello d’abbandono tale da non poter prescindere da un patto di fede assoluta nei confronti del viaggio che l’opera d’arte propone. Questo spettacolo e-voca e in-voca invisibili che solo lo spettatore disposto all’oblio estatico riesce ad incontrare. Un viaggio nell’attimo sospeso tra la vita e la morte. Io? Me.

 

Visto il 28 maggio 2017

Info

di Francesco Randazzo

regia Cinzia Maccagnano

con Cinzia Maccagnano, Luna Marongiu, Cristina Putignano

aiuto regia Chiara Pizzolo

assistente regia Marta Cirello

scene e costumi Monica Mancini

musiche originali Lucrezio de Seta, Fabio Lorenzi

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