Presentata in prima assoluta come evento di apertura del 46° Festival Internazionale del Teatro della Biennale di Venezia, ORESTEA (regia Simone Derai), un’opera sulla trilogia i Eschilo più che un trattamento o un’interpretazione di essa, costituisce una sfida che Anagoor muove in primo luogo al gruppo stesso. Vasta nei riferimenti letterari e filosofici dispiegati, ambiziosa nella durata e nel formato – quattro ore di spettacolo, divise in due tempi e tre parti: la trilogia eschilea è presente ma accelerata, coincidente con l’originale in Agamennone, desultoria e riassuntiva in Schiavi e Conversio – l’opera intera sembra costituire un approdo e una summa di una storia artistica estrema, coraggiosa e particolare.
a cura di Susanna Pietrosanti e Sandra Balsimelli
Al Teatro Fabbricone di Prato l’Orestea è di casa. Quella a firma di Luca Ronconi lo inaugurò nel 1974, questa di Anagoor tenta in questi giorni la scommessa di riportare in teatro quel senso del sacro, e del tempo (“non basta entrare in scena. …Bisogna evocare un altro tempo…”, dichiara il regista, Simone Derai) che quasi solo il capolavoro eschileo permette di assaporare, in un senso di sublime al limite tra bellezza e terrore.
No agli effetti consueti, no alle previsioni, no agli snodi che tutti si aspettano, questo Agamennone di Anagoor si priva di tutto per ritrovarsi infinitamente completo, in una curvatura che la mano del regista compie in maniera infinitamente abile. I monologhi classici, cavallo di battaglia di grandi attrici, delle due protagoniste, ad esempio, o il ringraziamento di Agamennone agli dei della città al suo ritorno, posto da Milo Rau al culmine del suo Empire, vengono abbreviati, riassunti, allusi (‘non capisco’, dice la traduttrice di Cassandra, genialmente, rinunciando a rendere comprensibile la ‘lingua delle rondini’ della straniera) ; ma non per questo la tragedia è priva di parole. Anzi, le parole la invadono, la abitano, la dominano, ma sono quelle del didaskalos, un Marco Menegoni in stato di grazia, impegnato in una prova sovrumana di memoria e di naturalezza, che monologa costituendo un ulteriore piano in questa scena apparentemente vuota e piatta come una lastra tombale che invece si apre, fermenta, si schiude come un fiore che sboccia.
La resa di Anagoor di questo vertice del teatro è impressionante, e coraggiosa. La scatola che contiene la storia già nota, secolarmente nota (l’attesa ambigua della regina Clitemnestra che il marito Agamennone torni, il rientro dell’eroe, e il duplice delitto, e poi la vendetta indotta da Apollo e compiuta dalla mano di Oreste, che interrompe la catena di sangue ) è inattesa, e incredibilmente originale. Un palcoscenico semibuio, toccato da aureole di luce pittorica, una scatola abitata da presenze che indossano abiti fuori tempo, lisci, lineari, in una tavolozza di colore così squisitamente greca, secondo il codice classico che riassume in una voluta penuria di termini una concezione del colore come densità di luce (e quindi lo stesso termine poteva riferirsi agli occhi di Era ma anche al salice, all’olivo, di base non colore, ma scintillio intenso). Indossando i loro abiti glauchi e bianchi e verdi i personaggi si muovono nella semi ombra: argento, ombre, indugio, pallore, sono tutti attributi degli Inferi, dove, per Rilke, non c’è niente di rosso. E la tavolozza di questo innovativo, geniale Agamennone, non comprende il rosso. Non sono rosse le fiamme che lingueggiano, scelta meravigliosa, sul grande schermo mentre la Sentinella dorme “appoggiata sui gomiti come un cane”, sulla sua cuccia di casse e trasmettitori: sono invece quasi incolori, definite dai riccioli di cenere che si arrotolano e schizzano, definite dalla vampa che si dilata nella disturbante colonna sonora, definite dalla carta geografica d’Europa che paradossalmente dalle fiamme non viene consumata, ma creata. Non è rossa di sangue, né gialla come il croco la bianca cerbiatta correlativo oggettivo di Ifigenia, esibita in scena come contenitore di ossa calcinate di tutti i bambini morti nella storia fatale della famiglia, il banchetto cannibalesco di Atreo e Tieste. E non è rossa neppure la strada di porpora che Agamennone dovrebbe secondo il testo percorrere, recandosi alla resa dei conti col suo destino. Anagoor rinuncia anche a questo effetto, consueto in ogni resa della tragedia, talvolta esaltato a ridondanza (come il lago di sangue dove inciampa e slitta il Corifeo Coniglio di Castellucci) ; Agamennone, in un bianco mantello da pastore di popoli, procede al suo blind date con la morte seguendo un sentiero di ceneri, che gli viene tracciato davanti da un giovane attore che lo precede camminando all’indietro e aprendo le urne dei caduti della grande battaglia (il coro eschileo aveva già avvisato che una delle colpe del sovrano di Micene è proprio questa, aver sprecato un’intera generazione di giovani eroi, e ricondotto indietro urne piene di cenere, solo per riportare al proprio fratello l’amore di un’adultera, Elena, ‘la donna oltremarina’).
La scena si dilata sia fisicamente, nello schermo ampio sul fondo, nei due piccoli schermi finestra laterali, da cui, con effetto incredibile, in piano americano gli attori che in questo stesso momento sono in scena si affacciano, icona di sé, sdoppiando tempo e spazio – sia, infine, nelle parole. Il giovane didaskalos in abiti contemporanei, collegato al mondo classico da un semplice paio di sandali alla greca (del resto, togliersi le scarpe significa da sempre entrare in contatto con altro da sé) recita i cori dell’Agamennone eschileo (magistralmente, slittando ad un Agamennone stentoreo, un capo in guerra acclamato dai suoi soldati per l’eroismo di ‘chiudersi al collo il collare della Necessità’), recita, o vive, o dissemina, le riflessioni parmenidee di Severino, i lampi agonizzanti della Morte di Virgilio di Hermann Broch, recita Sebald, Leopardi, la Arendt, rendendo il testo un arazzo di riflessione etica ed estetica, un processo, sì, anticipato, sottratto al finale per diluirlo in una presenza incombente in tutta l’opera, in un reticolato esteso di giudizio negativo rispetto alla decadenza, alla crudeltà del potere, e insieme un messaggio positivo, sulla possibilità di ripensare al cambiamento e all’instaurazione di una nuova, vera giustizia. Perciò dopo l’Agamennone, fedele al testo eschileo nei modi in cui una resa di genio può esserlo, vengono Schiavi, in cui il filo si rarefà, e una Conversio allusiva, quasi tutta in video, con una successione magistrale di immagini simboliche, agnelli, statue, un mondo privo di parola mentre del valore memoriale della parola si parla, eppure non privo di una profonda, visiva espressività, né di classica armonia, men che mai di bellezza.
L’operazione, geniale, è addirittura enciclopedica, nello spessore dei rimandi e delle allusioni, e nel proliferare dei temi (morte, guerra, parola, e mille altri) ; ma la fruizione è comunque possibile. La splendida lentezza dello svolgimento diventa fermento teatrale (ci vuol tempo, sì, per la metamorfosi) , ed anche al pubblico meno avvertito giunge, forte e inequivocabile, il messaggio. Non quello che i mille brani del didaskalos illustrano, o non solo quello. Qualcosa di più profondo. Che il nodo è inestricabile, e che ci tiene tutti. Che lo sapevamo già, perché di quel gesto assoluto siamo figli. Che la museruola che ci assicura al silenzio è inevitabile, perché ci insegna a non avere paura, né del grande mistero che abbiamo intorno, né di quello, maggiore, che ci abita.
ORESTEA / Agamennone, Schiavi, Conversio
sull’Orestea di Eschilo
drammaturgia e traduzione dal greco Simone Derai, Patrizia Vercesi
orizzonte di pensiero e parola S. Quinzio, E. Severino, S. Givone, W.G. Sebald, G. Leopardi, A. Ernaux, H. Broch, P. Virgilio Marone, H. Arendt, G. Mazzoni
con Marco Ciccullo, Sebastiano Filocamo, Leda Kreider, Marco Menegoni, Gayané Movsisyan, Giorgia Ohanesian Nardin, Eliza G. Oanca, Benedetto Patruno, Piero Ramella, Massimo Simonetto, Valerio Sirnå, Monica Tonietto, Annapaola Trevenzuoli
danza Giorgia Ohanesian Nardin
musica e sound design Mauro Martinuz
scene e costumi Simone Derai
realizzazione costumi e accessori Serena Bussolaro, Christian Minotto, Massimo Simonetto, Silvia Bragagnolo
scultura mobile Istvan Zimmermann e Giovanna Amoroso – Plastikart Studio
video Simone Derai, Giulio Favotto
light design Fabio Sajiz
assistenza tecnica Mattia Dal Bianco
assistente al progetto Marco Menegoni
assistente alla regia Massimo Simonetto
regia Simone Derai
produzione Anagoor 2018
con il sostegno di Fondation d’entreprise Hermès nell’ambito del programma New Settings
coproduzione Centrale Fies, Teatro Metastasio di Prato, TPE – Teatro Piemonte Europa, Teatro Stabile del Veneto
con la partecipazione alla coproduzione di Theater an der Ruhr supportato dal Ministero della Cultura e dello Sport della Renania Settentrionale – Vestfalia
con il supporto della Compagnia di San Paolo
sponsor tecnici Lanificio Paoletti, Printmateria, 3DZ
foto di Giulio Favotto
Teatro Fabbricone, Prato
16 marzo 2019