NON FARMI PERDERE TEMPO@Teatro Piccolo Eliseo: Tempus fugit

Il breve spazio di poco tempo

Tina è una ragazza di ventisette anni affetta dalla sindrome di Werner, una rara malattia genetica, che provoca invecchiamento precoce e tutta una serie di patologie ad esso connesse, nonché una predisposizione ad infarti e tumori. Ventisettenne nello spirito e nelle aspirazioni, Tina vive nel corpo di una quasi sessantenne (malata). Ciò che più le invalida l’esistenza sono frequenti fortissimi mal di testa, che la costringono ad un riposo forzato. Ha rinunciato così all’idea di lavorare e di condurre una vita “normale”, riducendosi a stare quasi perennemente a casa sul divano, tranne per qualche breve uscita. Sono uscite che la conducono per lo più dal dottore che la ha in cura e che le rivela la gravità della sua malattia poco alla volta, mettendola al corrente ad ogni incontro dei successivi immediati sviluppi della patologia. A casa le fa spesso compagnia Maria, una volontaria del centro per le malattie rare, sua coetanea e figura a lei vagamente speculare. Se Tina è infatti giovane dentro e vecchia fuori, Maria sembra quasi essere l’opposto. È una ragazza sana, ma affascinata da canzoni antiche, che accompagna con la fisarmonica, strumento per Tina troppo melanconico e demodé.

La scena concentra in uno spazio ristretto e chiuso, a voler accentuarne la piccolezza, le poche componenti della vita di Tina. Il divano, protagonista indiscusso, è al centro. Dal piccolo sofà a fiorellini colorati, la ragazza parla con Maria, alla quale confida passato e presente, chiedendo talvolta consigli, più spesso rivelando le decisioni prese. Sul lato sinistro la parete che dal salotto conduce all’esterno della casa, arredata da un appendiabiti sul quale si trovano i vari costumi. Davanti, la scala del palazzo, luogo d’incontro di Tina con il piccolo Massimino, un bambino con il quale gioca ad essere mamma. Massimino chiede di essere chiamato Harry, come il protagonista della sua storia preferita, Tina, da parte sua, si fa chiamare mamma, esaurendo in quell’infantile gioco delle parti l’unica possibilità di realizzare una maternità che sa essere a lei negata dal triste destino della sua malattia. Sul lato sinistro della scena, infine, la scrivania del medico è davanti e, illuminata di volta in volta, diviene l’esterno visto dall’interno, l’unico luogo dal quale Tina è resa come un’immagine ferma e che, più che parlare, attende risposte. Il solo elemento in scena non funzionale alla rappresentazione, ma piuttosto di valenza simbolica del tutto, è una sorta di grande scultura posta in fondo a destra. Una scala a pioli di forma elicoidale, che ricorda ovviamente la forma del DNA, sulla quale sono appese numerose sveglie. Un tratto genetico, insomma, particolarmente segnato dal tempo.

L'efficace regia di Massimo Andrei

Non solo la scena, ma tutta la regia sottolinea in questo spettacolo il senso di fretta che ne è la chiave. Fretta nel senso positivo del termine, intesa come necessità di comprimere nel poco tempo a disposizione tutto quanto è essenziale alla conclusione della storia. Una regia che, privilegiando ovviamente lo strumento del vigoroso monologo della Savino (divertente pur nella sua tragicità), restituisce l’alternarsi concitato delle situazioni, delle decisioni da prendere e dei fatti da ultimare, mentre la storia si esaurisce e con essa il tempo d’azione della protagonista. Il tutto, si è detto, in una scatola scenica che raccoglie e differenzia, senza dispersione alcuna.

Una regia impeccabile che va a supplire qualche crepa della scrittura. Viene da chiedersi innanzitutto come sia possibile alla protagonista ventisettenne avere una nipote adulta e già mamma, nei confronti della quale ha accumulato un forte rancore, derivante da fatti del passato che sembrerebbero meglio inserirsi nella vita di una reale sessantenne. Nel dialogo/monologo con questa nipote e nel raccontare a Maria fatti che riguardano lei e i suoi fratelli, Tina appare più come la sessantenne del suo corpo che non come la giovane che in realtà è. La resa del senso è trasmessa sul piano della contemporaneità e del simbolico allora, non altrettanto su quello della narrazione.

Una encomiabile Tina

Lunetta Savino mette in scena integralmente la sua abilità nel conciliare ironia, comicità a volte, e dramma. Disegna il dramma della vicenda con la risata. Una leggerezza guarnita dalla scelta dialettale, ma che in essa non si esaurisce. L’attrice rende a perfezione l’impatto che l’improbabile ed inesauribile forza positiva della protagonista genera nella risposta al destino avuto in sorte.

Quando, in un punto cruciale della vicenda, il medico rivela a Tina di avere un epitelioma, la donna reagisce con un surplus di carica fattiva, sveltendosi nel compiere quanto ha da compiere prima del tragico epilogo della sua vita e della storia. Atto ultimo è l'esibizione in un certo locale, assieme all'amica Maria, di uno spettacolo musicale, che corona il sogno di fare spettacolo e definisce i termini della vicenda patita. Cresce l'emozione, pur nel persistere di leggerezza e simpatia, mentre la scena è cambiata e al salotto dell'interno domestico si è sostituito un ambiente colorato e frivolo, adorno di piume svolazzanti.

Una storia davvero densa di contenuto serio e doloroso, poiché, alla tematica della malattia, della quale si è detto, si unisce quella della morte, scelta dalla protagonista per abbreviare il proprio calvario. Eppure una storia nella quale per lo più si ride e che non lascia abbandonare mai la positività di veduta della sua eroina. Ad insegnare a noi tutti che anche la morte può essere ridicolizzata e che, vestendola di buffo, si può forse imparare a metabolizzarla e ad accettarla con meno sofferenza.

 

NON FARMI PERDERE TEMPO

Tragedia comica per donna destinata alle lacrime

Scritto e diretto da Massimo Andrei

con Lunetta Savino

Scene: Daniele Stella

Costumi: Annalisa Ciaramella

Musiche: Claudio Romana

Video: Lorenzo Letizia

 

Produzione Maurizio Marino per Arteteca produzioni

Stefano Sarcinelli per Laprimamericana

Massimo Andrei per Mater

 

 

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