“IL TEMPO DI UNA FESTA. Appunti per una morte dolcissima”. Il titolo del progetto vincitore della seconda edizione del Premio Leo de Berardinis per artisti e compagnie campane under 35 contiene un ossimoro che disorienta e incuriosisce: cosa può esserci di così dolce nell’esperienza più amara e terrificante che ci sia dato di sperimentare nel corso delle nostre esistenze?

La morte a cui si fa riferimento in questi appunti foto-scenici è quella evocata dalla filosofa francese Simone De Beauvoir nella sua omonima raccolta di memorie “Una morte dolcissima”, romanzo nel quale la scrittrice annota i vissuti traumatici legati alla malattia, alla degenza ospedaliera e alla morte per cancro di sua madre Françoise, inconsapevole della vera prognosi e persuasa di curare una peritonite, mentre si consumano gli ultimi tragici istanti della sua vita.
La giovane e talentuosa Noemi Francesca, nel triplice ruolo di drammaturga, attrice e regista porta in scena un atto unico sofisticato ed elegante che, partendo da una rielaborazione per sintesi di contenuti del testo originale dell’intellettuale parigina approda ad una scrittura scenica personale e profonda, sorprendentemente matura per la capacità di stratificazione concettuale e la resa compositiva.
Contenuti
IL TEMPO DI UNA FESTA: la foto come teatro primitivo

Il dispositivo scenografico del Tempo di una festa viene strettamente legato al linguaggio della fotografia così definito da Roland Barthes: “La foto è come un teatro primitivo, un quadro vivente, la raffigurazione della faccia immobile e truccata, sotto la quale noi vediamo i morti”
Una bellissima donna in abito nero lungo (Noemi Francesca), che le note di regia ci presentano come una lamentatrice, ci attende in scena seduta ad un tavolo collocato sulla destra in compagnia di un vero fotografo (Marco Pedicini). Si alzerà per raggiungere il centro della scena con una fotocamera vintage e principiare così il suo primo monologo, a suon di scatti istantanei.
Dislocati nello spazio su entrambi i lati svettano attrezzature fotografiche e dei bauli multifunzione dai quali verranno estratti gli oggetti utilizzati durante i vari episodi: dei fiori, un vecchio telefono nero a rotella, dei libri; stoviglie e polveri colorate per il finale esuberante in cui Noemi Francesca raggiungerà il suo vertice espressivo, spargendo ceneri e danzando, mentre si alterneranno brani di Bob Dylan, Loredana Bertè e Trio Lescano.
Al centro è posto un tavolo rettangolare usato di volta in volta come scrivania, letto d’ospedale o tavolo autoptico retroilluminato.
La citazione di Roland Barthes campeggia all’inizio della performance sul telone montato sul fondo, che servirà sia da schermo per la proiezione di immagini simboliche (la morte raffigurata come una porta dischiusa / attraversamento di una soglia) sia da cornice per i magistrali scatti realizzati in presa diretta: la scena si trasforma in un set, l’attrice in una modella pronta a posare (chissà se le foto che vengono scelte ed esposte sulle lapidi ci rappresentano veramente?); all’occorrenza, verranno proiettate foto d’epoca, stampate in b/n o a colori, raffiguranti la madre di Simone De Beauvoir, Françoise, in alcuni momenti memorabili della sua vita.
È un tentativo di messa in scena dell’impossibile, poiché la morte sfugge per definizione a qualsiasi cattura e solo si lascia interpretare attraverso il suo opposto che è la vita, ed è per questo che il gesto del fotografare, eseguito mirabilmente da Marco Pedicini previo utilizzo di una strumentazione professionale, si presenta come ideale azione/descrizione per immobilizzare, catturandolo di volta in volta in fermo-immagini, l’attimo solenne che si vorrebbe eternare, per vincere e resistere alla morte.
Una menzione speciale va a tutti gli altri operatori coinvolti in questa fortunata produzione del Teatro di Napoli-Teatro Nazionale: Giorgia Lauro firma le scene, Ciro Petrillo il disegno luci, Diego Iacuz il disegno sonoro. All’allestimento ha collaborato l’Accademia di Belle Arti di Napoli, Cattedra di Scenografia del Prof. Luigi Ferrigno.
IL TEMPO DI UNA FESTA: ricerca di nessi di senso che rendano sopportabile l’idea della morte

Nelle vesti di drammaturga, coadiuvata da Riccardo Festa, Naomi Francesca crea una sorta di archivio personale di conversazioni private. Raccoglie e propone in scena, insieme alle proprie, una selezione di testimonianze reali di persone chiamate a rispondere alle domande sulla morte e i suoi corollari:
C’è un luogo oggi per il dolore?
C’è un luogo per la morte?
Come dialoga l’occultamento del dolore con il suo svelamento?
Esiste oggi uno spazio collettivo di natura narrativa, simbolica, rituale, in grado di fornire possibili nessi di senso che rendano sopportabile l’idea della morte?
E ancora:
Che rito vorrei per la mia morte?
Che cosa vorrei che restasse di me?
Come vorresti che fosse celebrata la tua dipartita?
Come immaginano le persone la loro cerimonia funebre?
Precedentemente registrate e poi trasmesse ad intervalli regolari tra i vari quadri che compongono l’allestimento, queste voci partecipi e commosse offrono un contributo essenziale all’emersione di nuove risposte e soluzioni, messe al servizio di un impianto drammaturgico quanto mai vario e composito.
Ci confidano i ricordi più intimi al capezzale presso il quale, in procinto di perdere qualcuno che amiamo, paghiamo con mille rimpianti l’essere ancora vivi: ci sembra che avremmo dovuto regalare a quella persona molto più spazio e tempo, forse tutto lo spazio.
Ciò che vediamo rappresentata è la ricerca di uno spazio collettivo di natura narrativa, simbolica, rituale, in grado di fornire possibili nessi di senso che rendano sopportabile l’idea della morte.
Lo scopo perseguito è quello di restituire a questa ricerca la possibilità di un luogo e di un riconoscimento alla morte e alla sua complessa fenomenologia, per sottrarla ai freddi criteri diagnostici e trasformare l’elaborazione di un lutto privato nell’occasione per condividere e sanare la ferita all’interno di una comunità.
Noemi Francesca sfrena in scena il suo desiderio di riflettere sulla fatica di tutti i vivi, chiamati presto o tardi ad assumere le gravose incombenze della gestione di un corpo in consunzione, il proprio che invecchia e s’ammala o quello moribondo delle persone care, al quale si resta legati con disperata tenacia fino alla fine.
Si muove nello spazio dando vita, con toni e considerazioni misurate o talvolta struggenti e ricche di pathos, ai momenti più significativi estrapolati dalla narrazione biografica di De Beauvoir. Tra questi, quelli dedicati al disprezzo nei confronti dei medici disumanizzati da un uso esclusivo dei mezzi tecnici o quelli legati all’attestazione di stima verso quelli, al contrario, risolutamente empatici nella somministrazione delle cure.
Negli ultimi istanti di un moribondo si può racchiudere l’infinito e quell’infinito è inenarrabile: l’intento della pièce è quello di lasciarne apparire e intravedere almeno un lampo. Proprio come il flash di una foto.
Nel Tempo di una festa, gli appunti per trasformare i tabù sociali in virtù morali

Come dialoga l’occultamento del dolore con il suo svelamento? Il problema della morte in rapporto all’esistenza dell’uomo nel mondo è l’orizzonte metafisico fisso dell’intera storia della filosofia occidentale: costante e inesauribile il tentativo di chiarirne aspetti ontologici e valoriali.
Non è un caso che ad ispirare e performare la ricerca di uno spazio-tempo adeguato alla realizzazione di questa “festa” siano proprio i ricordi privati di una delle voci filosofiche più autorevoli del secolo scorso: Simone De Beauvoir alle prese con lo strazio indicibile per la perdita della persona più cara; devastata dalla consapevolezza di una perdita terribile e inammissibile, incombente ed imminente; investita da una quota di sofferenza che nessun esercizio teoretico avrebbe potuto esorcizzare, nel tentativo tanto vano quanto disperato di comprenderla e spiegarla.
Qualsiasi tentativo di razionalizzazione e analisi della morte, infatti, s’infrange inesorabilmente contro la durezza del dolore assoluto che l’accompagna e definisce.
E allora bisogna interrogarsi e interrogare i propri limiti, i limiti della nostra capacità di sopportazione, in balìa della fine che ci attende, e che di umano non ha niente, ammettendo quanto sia difficile parlarne e stabilire un confronto: non si muore di essere nati o di essere vissuti, si muore di qualcosa…Non si è mai troppo vecchi / Non esiste una morte naturale / Di ciò che accade all’uomo nulla è naturale perché la sua presenza mette in questione il mondo.
Il riferimento al rifiuto della morte è fin troppo scontato: troppo triste e angosciante affrontare l’argomento.
E allora è per questo che, ci ricorda Noemi Francesca abbattendo la quarta parete e rivolgendosi a noi personalmente, parliamo della morte in modo poetico, conferendole decine di altri nomi: sonno eterno, disavventura terapeutica, livella, fine, dipartita, scomparsa, passaggio a miglior vita, decesso, cessazione, estinzione, trapasso, ultimo respiro, salita al Padre.
Il dolore e il tempo necessario del lutto vengono intercettati da Noemi Francesca come attualissimi tabù sociali, poiché continuamente rimossi e depoliticizzati.

Ad una subdola strumentalizzazione o spettacolarizzazione spicciola dei temi trattati, la Nostra sostituisce quindi un’indagine accurata sulla morte come unica esperienza che in verità non facciamo, se non indirettamente al cospetto dei nostri simili giunti al momento del trapasso; un’analisi introspettiva che viene poi inevitabilmente estesa agli Altri, perché gli Altri possano venire di nuovo animati e coinvolti a pieno titolo in un processo di unione e partecipazione; un lavoro svolto su più piani e animato da sincere istanze e tensioni emotive, intellettuali, estetiche: performance, chioserà l’attrice nel suo entrare e uscire dal personaggio di Simone De Beauvoir, significa portare completamente a termine un’esperienza.
Se i primi attori nell’antichità si distaccavano dalla società per recitare la parte dei morti, Noemi Francesca decide di rivolgersi direttamente a quest’ultima per coinvolgerla in un processo di disvelamento comune.
La funzione catartica del Tempo di una festa. Appunti di una morte dolcissima.
Esaltando l’innata funzione catartica del teatro e dispiegando sapientemente i mezzi delle tecniche fotografiche e scenografiche più all’avanguardia, Noemi Francesca e Marco Pedicini trasformano l’evento cruciale della morte e la restituiscono alla dimensione di un necessario e salvifico rituale collettivo: una cerimonia funebre che può e deve trasformarsi e trasformarci, una festa per superare insieme il dolore e ritrovare il senso e lo spirito dell’appartenenza ad una comunità di umani segnati dallo stesso destino, oggi più che mai alienati da qualsiasi slancio alla condivisione e per ciò stesso condannati a non capire mai che è possibile imparare a vivere soltanto imparando a morire, dialogando con la morte e non eludendo le domande che essa ci pone.
In scena al Ridotto del Teatro Mercadante di Napoli dal 13 al 18 dicembre
IL TEMPO DI UNA FESTA
APPUNTI PER UNA MORTE DOLCISSIMA
da Una morte dolcissima di Simone De Beauvoir
drammaturgia e regia Noemi Francesca
con Noemi Francesca, Marco Pedicini
dramaturg Riccardo Festa
foto utilizzate nello spettacolo Marco Pedicini
scene Giorgia Lauro
disegno luci Ciro Petrillo
disegno sonoro Diego Iacuz
direttore di scena Antonio Gatto
tecnico video Pietro Di Francesco
sarta Roberta Mattera
foto di scena Ivan Nocera
in collaborazione con l’Accademia di Belle Arti di Napoli
Cattedra di Scenografia – Prof. Luigi Ferrigno
produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale
Durata: 1 ora (atto unico)