Al Teatro Bellini di Napoli andato in scena per poche serate l’impressionante progetto teatrale di Romeo Castellucci, BROS, un’opera d’arte totale, che val la pena di essere vista anche solo per poter dire di aver partecipato all’esperimento.

Contenuti
BROS: EVOCAZIONE DI PAGINE NERE DELLA STORIA
Bros evoca scenari da guerriglia urbana che riportano alla memoria manifestazioni di protesta e atti di sommossa duranti i quali lo scontro tra una determinata compagine sociale in lotta e le forze del dis-ordine istituito hanno prodotto alcune delle pagine più nere della storia coeva: impossibile ignorare i richiami al Terzo Reich o all’omicidio di George Floyd soltanto per citare i più noti.
Non è un caso che la fonte d’ispirazione di questo allestimento sia il fenomeno dei gilets jaunes in Francia. Durante un soggiorno parigino Castellucci ebbe modo, infatti, di osservare in presa diretta la protesta animata sui due fronti dei manifestanti e dei poliziotti schierati in divisa.
BROS: esperimento sociale a teatro
La visione “impressionante” di questa falange così unita e compatta, quasi un “leviatano” corpo, ha ispirato la realizzazione di un esperimento sociale che ci ricorda quello condotto nel 1961 dallo psicologo statunitense Stanley Milgram, tre mesi dopo l’inizio del processo a Gerusalemme contro il criminale di guerra nazista Adolf Eichmann.
Milgram concepì l’esperimento come un tentativo di risposta alla domanda “è possibile che Eichmann e i suoi milioni di complici stessero semplicemente eseguendo degli ordini?”.
L’obiettivo fu lo studio del comportamento di soggetti ai quali un’autorità ordinava di eseguire delle azioni in conflitto con i valori etici e morali dei soggetti stessi.
BROS: Romeo Castellucci crea una fucina degli orrori per lanciare un monito apocalittico
Entrando in sala siamo permeati da una nebbia fitta, simile a quella generata dalle granate fumogene utilizzate per scopi militari, e perturbanti suoni di cingoli metallici.
Rumori magnetici di un mondo dominato e disumanizzato dalla tecnica, flash luminosi che abbagliano nella semi-oscurità e la musica elettronica di Scott Gibbons avvolgeranno in un’atmosfera distopica i vari quadri dell’opera, che si articolerà in sequenze di azioni coreografate, talvolta ispirate da celebri capolavori dell’arte pittorica: dalla Deposizione di Cristo di Raffaello Sanzio alla Lezione di anatomia del Dottor Tulp di Rembrandt.
Svettano sul palco due imponenti macchine nere dotate di bracci cilindrici che ruotano su sé stesse, sorta di robot totemici animati o creature androidi dotate di volontà propria, come possedute da una cieca furia sterminatrice che potrebbe scatenarsi da un momento all’altro e senza alcun preavviso.
Le minacciose fattezze e le movenze di questi oggetti circondati da un’aura fantascientifica sembrano il risultato di un’ibridazione mostruosa tra vecchie cineprese e armi da fuoco automatiche.
L’effetto è straniante: siamo accolti da un respingimento.
Il contratto asociale di BROS

Un gruppo di 22 figuranti reclutati di volta in volta in ogni città tra attori professionisti e gente della strada ha deciso di sottomettersi volontariamente alle regole precise e insindacabili del regista, rinunciando a qualsiasi velleità di partecipazione ad un processo creativo autonomo: la chiave per accedere alla complessità tematica dello spettacolo sta tutta in questa anomala, strategica e cruciale pre-condizione che lo rende sperimentale e provocatorio.
Per queste persone comuni, tutti maschi senza limiti d’età purché maggiorenni ai quali viene richiesto di portare i baffi ed indossare una divisa da poliziotto americano, secondo i motivi iconografici appartenenti alla storia del Cinema degli anni ’50 e ’60, non si tratta di sottoscrivere un normale contratto ma di sospendere qualsiasi giudizio, pensiero critico ed emozione. Sono ignari partecipanti ai quali verrà consegnato un indice comportamentale che dovranno seguire rigidamente (lo stesso che verrà consegnato al pubblico prima di entrare in sala, stampato su un grosso foglio nero):
“Sono disposto a diventare un poliziotto in questo spettacolo. Sono disposto a credere di essere un vero poliziotto. Sono disposto a eseguire tutti gli ordini per essere un vero poliziotto».
A chiudere il decalogo la più solenne delle prescrizioni:
«L’esecuzione degli ordini sarà la mia oblazione, sarà il mio teatro».
Non impareranno la loro parte se non eseguendola, omologati e telecomandati a distanza, ridotti al rango di impiegati in divisa che dovranno eseguire gli ordini senza avere il tempo per pensare, per scegliere, per decidere. Indossare l’uniforme significa esercitare un’autorità consentita a tutti gli effetti: quella che, dettando legge, ne viola ogni sacralità.
Lo squadrone così composto abdicherà a qualsiasi libertà in nome della Legge, ossequiando un principio di obbedienza assoluta. Le caricaturali silhouettes dei poliziotti si trasformeranno in emissari di un male totalitario: dotati di un auricolare, verranno spostati a piacimento, in modo plastico, fluido, scultoreo, come pedine ipnotizzate e dissennate, dalla voce del regista / deus-ex-machina che impartirà le varie disposizioni
Sacro e profano nel BROS di Romeo Castellucci

L’azione di Bros è incastonata come un diamante tra due momenti paradigmatici, gli estremi di un processo alchemico che corromperà il Sacro per mezzo di ogni profanazione possibile.
La prima scena di Bros descrive un habitat da odissea lunare ed esprime un immaginario mitico, atavico.
Un frinire di grilli e un chiarore immacolato accompagnano l’incedere ieratico di un canuto vegliardo, impersonato dall’attore rumeno Valer Dellakeza, vestito di una tunica bianca e appoggiato ad un lungo bastone di legno in cima al quale pende un cucchiaio.
Il vecchio avanza in proscenio tremante, si accovaccia e raccoglie della polvere con cui si cosparge viso e capo: compie gesti cerimoniali ed emana sacralità. Guardando verso l’alto comincia a pronunciare un discorso incomprensibile, quasi un lamento, che giunge a noi come la eco di un monito ripetutamente eluso, una vana opera di persuasione.
Parla la lingua antichissima, oracolare, del Vecchio Testamento.
È il profeta Geremia, il cui appello appare nel Libro di Isaia (40,3): Preparate nel deserto la via del Signore.
Una memoria genetica si ridesta in noi e ci fa accedere al significato terribile di questo messaggio enigmatico, babelico, al di là di ogni interdetta decifrazione.
È il richiamo disperato di chi, medium tra l’umano e il divino, ha intravisto la progenie di mali che sta per abbattersi sulle future generazioni e la preannuncia, maledicendola, nel deserto di una secolarizzazione compiuta e irreversibile; rivolto ad una genìa soggiogata che ha sostituito la dipendenza dal potere ecclesiastico a quella dal potere civile.
Poi, illuminato dall’ombrello riflettente di un set fotografico, viene brutalmente immortalato da un flash: il passaggio traumatico dalla dimensione arcaica a quella contemporanea, dal sacro al profano, è segnato.
Il saggio, denudatosi, s’infila in un letto e verrà poi agito come un pupazzo dai veri protagonisti dell’azione, la bolgia misantropa di poliziotti beffardi che – non potendosi distinguere altrimenti – vengono muniti di distintivo e danno sfogo alla loro rabbia e frustrazione repressa.
Carent ingenio? Materiam reperiunt materia non reperiunt? Se ipsos adhibent:
Non hanno idee? Allora trovano una materia. Non trovano la materia? Allora usano loro stessi.
L’epilogo dell’azione è consegnato ad un sipario nero sul quale campeggia un’ultima rivelazione e che nasconde l’ultima drammatica scena a lasciarci senza speranza.
Un’esoterica riflessione sul rapporto con la legge: BROS

Al lavoro è un controllo pervasivo, finalizzato al mantenimento di un ordine folle che muta la pacifica convivenza tra uomini in scontro e sopraffazione omicida: se pensavate che il titolo alludesse ad un sano, condiviso sentimento di fratellanza vi sbagliavate. Non c’è traccia di legami parentali o interpersonali tra le comparse di questo gioco perverso e luciferino: Bros allude esattamente all’esplosione del suo stesso significato e all’impossibilità di fondare quel vincolo di reciproca appartenenza tra tutti gli uomini come discendenti ed eredi di un originario, religioso messaggio di pace, fratellanza ed armonia universali.
Ci viene mostrato un manipolo di gregari assoldati da un leader, “affratellati” dalla pulsione di morte, posseduti da un gaudente, vendicativo sadismo contraffatto da doverosa ingiunzione: Il piacere di essere gregge è più antico del piacere di essere io, per dirla con Nietzsche. E dunque l’intera messa in scena orchestrata da Castellucci si traduce nella rappresentativa cattiva coscienza della quale il nostro Presente ha più disperato bisogno.
L’unico io consapevole si riconferma quello dell’artista in grado di allenare lo sguardo fino alla funzione oscena: pornograficamente fuori dalla scena, dal momento che la platea sarà letteralmente invasa e pervasa dal blob umano di nere e turpi sagome poliziesche in preda a raptus di ferocia abusante e, in base ad una seconda, possibile accezione etimologica, come portatrice di cattivo augurio.
Non è un caso che l’opera si concluda con l’apparizione candidamente stridente di un bambino, prossimo a compiere il suo passaggio dall’infanzia all’adolescenza, presentato nelle vesti di un giovane capo o re appena investito della sua carica.
Caleidoscopico BROS. Romeo Castellucci firma un’opera d’arte totale
Bros non è riducibile all’identità di mero spettacolo teatrale né somma in sé le caratteristiche di una comune forma d’intrattenimento. Si conferma, come i precedenti progetti di questo geniale e poliedrico outsider, un’esperienza estetica complessa ed estremamente esigente, che mette in discussione lo status stesso di spettatore.
Si dipanerà sotto i nostri occhi come un’opera d’arte totale e definitiva, una fonte inesauribile di segni e significati impossibile da catalogare univocamente. Siamo a dir poco sopraffatti dalla complessità del risultato generato: una moltiplicazione infinita di suggestioni artistiche dirompenti e riferimenti inequivocabili che impongono una continua meta-riflessione.
Chi solitamente, in qualità d’astante, guarda e fruisce passivamente del rituale come elemento fondativo dell’evento teatrale, deve ammettere qui d’essere coinvolto in modo totalmente diverso, coercitivo: guardando, si vede guardare.
Non può distogliere lo sguardo ed evitare di essere testimone, in tutta coscienza, della più brutale e crudele disumanità al servizio di un’autorità folle e indiscriminata. Siamo otticamente colpiti ed attraversati dalla raffica di gesti, suoni, immagini, volti e simboli che, come proiettili, esprimono una violenza fratricida. Inviluppati come siamo in una dimensione arcana, orgiastica e misteriosa, sospesa tra immanenza e trascendenza, siamo chiamati a problematizzare il gesto stesso del guardare fino a chiederci cosa significhi e cosa implichi.
Guardare è un gesto gravido di conseguenze, Castellucci docet.
“Ridare la vista ai ciechi”: l’azione dimostrativa di BROS

Nel mostrarci la nostra stessa indifferenza, Bros assume l’altissimo ed indispensabile valore di un’azione dimostrativa intellettualmente miracolosa.
Il buio nel quale si consuma ogni più atroce sevizia e persecuzione in nome di una legge orwelliana è, metaforicamente, quello della tipica cecità selettiva occidentale dinanzi ai crimini dell’ubiqua guerra e sovrana ingiustizia che governano sulla Terra.
Castellucci sembra chiederci: quanto ci ri-guarda la sofferenza che i nostri simili arrecano ai loro, ai nostri fratelli? Quanto più colpevoli diventiamo se, pur sottoposti ad un quotidiano bombardamento mediatico, invece di sollevarci e reagire, restiamo soggiogati ed assuefatti?
La visione dei poliziotti che per un’ora e mezza si comportano come zombies, percuotendo e torturando il capro espiatorio individuato nei loro fratelli ribelli, non ci schioda dalle nostre poltrone: perché?
Ci assale il sospetto che in realtà ad essere descritta qui sia la gravità del nostro stato: l’incapacità di indignarci, di decostruire, sanandole, abitudini psicologiche inadeguate, per correggere forme di adattamento sociale inconciliabili con la nostra pretesa di continuare a vivere in regimi democratici sull’orlo del collasso.
La sfilata di immagini e segni dissonanti non ci spettina più di tanto, non altera la nostra composta e cinica emotività, provocandoci sussulti di raccapriccio e accorato sgomento; peraltro, una ricognizione ermeneutica univocamente descrittiva sarebbe riduttiva e parziale. L’analisi del profluvio di segni e dei solchi tracciati è infinita.
La simbologia sacerdotale di BROS
Rimbombi di tuono si accompagnano a massacri rituali in cui vengono mostrati oggetti dotati di una intrinseca forza catalizzatrice, poiché potenzialmente infinita è la proiezione su di essi di significati plurimi: un grandissimo anello d’oro esibito mentre viene scattata una foto di gruppo; due pastori tedeschi in carne ed ossa ad accompagnare improvvise ronde; i motti programmatici in latino, leitmotiv dell’intera azione, scritti su didascalici drappi neri, come ad esempio:
Cum mortuis paciscendum est: Devi negoziare con i morti.
Forse un riferimento ad una mai troppo rimpianta Classicità e alla lingua degli avi, poiché solo i morti ci possono parlare e redimere?
E poi i manganelli, elevati come vessilli di vittoria verso l’alto, usati più volte per pestare la vittima di turno.
Le gigantografie di un babbuino, di una zampa di gallina, della mano di un afroamericano vista di profilo, delle colonne di un templio ellenico; un ritratto di Samuel Beckett e una foto della Sfinge; di un busto di marmo con un buco all’altezza del pube; di una giovane donna dal volto angelico.
Diversi elementi altrettanto suggestivi verranno collocati al centro del palco e sprigioneranno il loro potere seduttivo e straniante: un raggruppamento di imponenti bombole con tubi ad erogare verso l’alto colonne di vapore acqueo a mo’ di geyser e, gettata a terra, la testa di un montone sgozzato a fissarci inerme.
Alcuni poliziotti si cospargono di liquido rosso sangue per raffigurare volti impiastrati di sangue o ne versano di bianco latte sul corpo nudo, esanime, della vittima, più simile ad un animale sacrificale che, all’occorrenza, viene strattonato con veemenza, avvolto in una sindone o trasportato in una busta nera come un cadavere da occultare. Vengono versate taniche d’acqua senza alcuno scopo.
In scene successive due nuclei di poliziotti si dispongono in file ordinate ai margini del palcoscenico e si fronteggiano o compiono gesti semplicemente inconsulti, egemonica l’assenza di ogni logica in questa legislazione.
Sparano a salve o porgono le terga mentre s’ode un vagito che muta in pianto; simulano decapitazioni mentre spire d’incenso si diffondono nell’aria accanto ad una pira infuocata; assistono compiaciuti a improvvise crisi epilettiche pronunciando l’unica parola della funzione: “bravo”; si compattano al centro del palco al cospetto di un ominide dalle sembianze aliene che viene fatto calare dall’alto ed adorato con gesti rituali che ricordano il saluto fascista.
BROS. Il rapporto tra la massa e il potere

Bros è paragonabile ad una sorta di happening claustrofobico ideato per scandalizzare e sconvolgere: esteticamente, rappresenta la quintessenza della terribilità. È puro sublime kantiano.
Una sorta di “cura Ludovico” somministrata allo scopo di rieducare il senso della vista alla responsabilità morale e civile.
Non è uno spettacolo sulla polizia ma sul concetto di massa nel suo senso più deteriore, tanto più che, nella sua spersonalizzata organicità, raggiunge vertici di precisissimo rigore omicida.
Il vero boia, scriveva Canetti in Massa e potere, è la massa. La condanna capitale che, inflitta in nome del diritto, suona astratta e irreale, diventa vera quando è eseguita dinnanzi alla moltitudine.
Impossibile non decifrare dunque l’opera come un sontuoso quanto macabro manifesto di denuncia di una collettività acritica, spaventosamente alienata da un sistema di norme morali e assetti politici condivisibili: fratelli che, oggi più che mai, possono rappresentare un muro invalicabile, una impasse storico-socio-culturale insuperabile.
Quanta verità può sopportare, quanta verità può osare un uomo?
Questa è diventata la mia vera unità di misura, sempre più.
L’errore (la fede nell’ideale) non è cecità, scriveva Nietzsche, l’errore è viltà.
in scena al Teatro Bellini di Napoli dal 13 al 18 dicembre 2022
visto il 14 novembre 2022
BROS
concezione e regia Romeo Castellucci
con Valer Dellakeza
con gli agenti Luca Nava, Sergio Scarlatella
e con uomini dalla strada
musica Scott Gibbons
collaborazione alla drammaturgia Piersandra Di Matteo
assistenti alla regia Silvano Voltolina, Filippo Ferraresi
una coproduzione Societas, Kunsten Festival des Arts Brussels, Printemps des Comédiens Montpellier 2021, LAC Lugano Arte Cultura, Maillon Théâtre de Strasbourg – Scène Européenne; Temporada Alta 2021, Manège-Maubeuge Scène nationale, Le Phénix Scène nationale Pôle européen de création Valenciennes, MC93 Maison de la Culture de Seine-Saint-Denis, ERT Emilia Romagna Teatro Italy, Ruhrfestspiele Recklinghausen, Holland Festival Amsterdam, Triennale Milano Teatro, National Taichung Theater, Taiwan
Durata Spettacolo: 90 Minuti
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