Figura tra le più complesse della Rivoluzione francese, Georges Danton emerge in tutta la sua forza e ambiguità nella tragedia dedicatagli nel 1835 dal giovanissimo drammaturgo tedesco Georg Büchner. Tema principale di Morte di Danton (in scena allo Strehler di Milano fino al 13 marzo 2016) non è però il dramma di uno dei principali protagonisti di un evento che ha lasciato un segno indelebile nella storia e cultura europea e nella civiltà occidentale, ma l’essenza stessa del concetto di rivoluzione. La finalità di costruire una società in cui libertà e giustizia anche economica esistano per tutti, qualsiasi sia l’origine di ciascuno, riesce a conservare la sua purezza quando la rivoluzione giunge al potere? Ed è possibile costruire un mondo nuovo in tempi rapidissimi rispettando le regole e soprattutto l’essenza della democrazia?
Il ventiduenne Georg Büchner (Goddelau 1813 – Zurigo 1837) stava scrivendo questa tragedia quando fu costretto ad abbandonare precipitosamente la natia Assia per sfuggire all’arresto avendo preso parte a uno di quei tentativi rivoluzionari e libertari che punteggiarono la storia europea nella prima metà dell’Ottocento. Uomo dai molteplici interessi, si era dedicato soprattutto alle scienze naturali: a Zurigo (dove è morto per il tifo probabilmente contratto durante uno dei suoi esperimenti) si era trasferito per svolgere dei corsi su alcuni argomenti di anatomia comparata.
Scritto in cinque settimane (Büchner aveva urgenza di pubblicarlo avendo bisogno del compenso per finanziare la sua fuga), Morte di Danton è un grande affresco storico sull’ultimo periodo del Terrore, regime caratterizzato da una serie di misure (volute dal Comitato di salute pubblica di cui Danton e Robespierre erano i leader) duramente repressive nei confronti degli avversari politici in genere ghigliottinati dopo processi farseschi.
Premesso che l’unico personaggio inventato è Julie, la moglie di Danton, occorre rilevare che l’unico limite è l’approfondimento dei caratteri, specialmente di Robespierre – appare come una specie di Savonarola laico (l’Incorruttibile) alla ricerca di una dittatura personale – e di Danton di cui sfugge il complesso percorso all’interno del processo rivoluzionario: come leader emerge solo nella seconda fase della Rivoluzione quando diviene membro del Governo Girondino dopo aver avuto l’intuizione di rovesciare la Monarchia e instaurare la Repubblica per salvare gli ideali della rivoluzione. Danton, infatti, non era conosciuto né come estremista, né come nemico della Monarchia (secondo alcuni storici nella notte del 10 agosto 1792 – assalto alle Tuileries – membri della famiglia reale contavano su di lui come ancora di salvezza).
Il contrasto tra Danton e Robespierre non era dovuto a brama di potere personale – come potrebbe apparire dal testo di Büchner – ma a diverse concezioni sullo sbocco della Rivoluzione (che non poteva essere permanente) e sulla durata e uso del Terrore: Danton vedeva quest’ultimo finalizzato all’eliminazione dei residui della Monarchia e della classe che la rappresentava per arrivare a una specie di democrazia liberal-populista con una certa tolleranza etica e morale. Per Robespierre, invece, il Terrore era lo strumento per estirpare trasformismi e corruzione e arrivare a creare una società in cui il popolo fosse protagonista (con termini attuali potremmo definirla socialista, non comunista qualifica attribuibile alla sinistra giacobina che faceva capo a Hébert fatto ghigliottinare con i suoi).
La messa in scena di Mario Martone (uno dei più brillanti e intensi registi italiani, le cui opere non sono mai superficiali) è straordinariamente coinvolgente: il pubblico è fisicamente in platea ma spiritualmente sul palcoscenico partecipa all’arresto di Danton e dei suoi compagni, ai dibattiti in carcere e soprattutto al processo.
Splendide le interpretazioni di Giuseppe Battiston che rende con misura le varie sfaccettature di Danton: dalla sfiducia sul futuro della Rivoluzione a una concezione quasi ‘sacrale’ di se stesso all’irruenta e grandiosa difesa in cui rivendica il suo identificarsi con la Rivoluzione e di Paolo Pietrobon che fornisce un Robespierre dolente e quasi ascetico nel suo rigore morale, nella lotta alla corruzione e nel voler costruire a qualsiasi costo una società giusta e perfetta, probabilmente incompatibile con le aspirazioni degli esseri umani.
Nel numerosissimo cast (una rarità nel teatro di questi anni) che fornisce una prestazione di alto livello spiccano per le figure originali o complesse che interpretano Paolo Graziosi (Thomas Payne filosofo, costituzionalista e rivoluzionario inglese) e Roberto Zibetti che rende con equilibrio la discutibile figura di Barère, un gentiluomo divenuto rigido protagonista del Terrore e organizzatore della politica estera della Repubblica: sfuggirà alla ghigliottina e tornerà a galla con Napoleone.
Morte di Danton evidenzia perfettamente come la Rivoluzione francese sia stata espressione di una borghesia colta e ispirata dall’Illuminismo (solo Legendre era un ex marinaio e macellaio), ma in cui il popolo (salvo che per qualche Giacobino) rimaneva solo uno strumento da manovrare non partecipe né destinatario dei nuovi assetti di potere.
Ottimo il ritmo scandito dal gioco dei sipari accompagnato dal metallico e macabro suono della ghigliottina.