Non è un’opera facile quella messa in scena da Carlo Studer al Teatro Stanze Segrete fino al 15 novembre: si tratta di “MORIRE”, tratto dalla novella giovanile “Sterben” di Arthur Schnitzler autore, fra l’altro di “Doppio Sogno” autore ottocentesco, medico, strettamente collegato al mondo della psicoanalisi.
E quasi in ottica psicoanalitica si pone l’interpretazione dei sentimenti di due amanti austriaci Felix e Maria, immersi nella cultura tardo ottocentesca. Il loro amore muta a causa della malattia di uno dei due, trasformandosi da Amore in Possessione, un rapporto dove la Pietà prende il sopravvento e l’Amore per la Vita supera quello per l’amante malato, non senza dubbi e tormenti.
L’opera, di sapore squisitamente romantico –ben rispettata nell’ambientazione, nei vestiti e nelle movenze, nonché nel canone espressivo- ci viene riproposta in una chiave narrativa elegante, all’interno del piccolo spazio del Teatro Stanze Segrete che costringe questa volta gli spettatori in un angolo buio in fondo alla stanza, e lascia agli attori lo spazio centrale, circondati da specchi. Intorno ai due amanti pochi arredi di scena, poche comparse per lo più mute perché la scelta registica è quella di concentrare tutta l’attenzione solo sui due amanti e sul loro rapporto in evoluzione. Ad ogni chiusura di luci si ha come l’impressione di scorrere il romanzo, sfogliando pagina e scoprendo come a logorarsi a causa della Malattia non sia tanto il Corpo di Felix quanto l’Amore stesso fra i due.
Il Felix messo in scena da Studer è un tisico intrattabile, a tratti morboso e insopportabile. Volutamente ansimante, è un uomo per cui non si riesce a provare compassione vista l’estrema negatività con la quale vive il suo Male. La performance di Studer è migliore nella seconda parte, quella più delicata, in cui la Malattia e l’isteria avanza: mantiene una recitazione via via più ansimante e stridula, rimane volutamente rigido nei gesti anche nel rispetto dell’acuirsi del male. Pochi, peccato(!), i momenti di complicità sessuale con Maria, che invece avrebbero aiutato ad approfondire aspetti ulteriori rispetto a quelli di natura prettamente sentimentale del Protagonista. La sintonia fisica con la Maria/Gumina è comunque ben collaudata più dal punto di vista romantico che fisico, visto l’intenso rapporto lavorativo dei due attori negli ultimi anni.
Lo spettacolo scorre veloce, grazie ai continui spezzettamenti della trama, mentre a rallentare il ritmo è la lettura del testo da parte di alcune voci narranti, nel buio di scena. Non manca qualche calo di attenzione in alcuni momenti centrali, più lenti e narrativi: certe scene e certi discorsi sembrano ripetersi e l’argomento avvitarsi su se stesso, probabilmente nel rispetto del testo. Ma sono parti che potevano in parte omettersi o sostituirsi.
Rispetto al Felix messo in scena da Studer, rileggiamo anche in quest’opera alcuni richiami (involontari) all’opera precedente, a quell’ “Amleto” messo in scena l’anno scorso sempre allo Stanze Segrete, dove l’attore aveva proposto un principe che era privo di una ben definita dimensione sentimentale che ora, invece, è presente ed esplode nella sua drammaticità intrinseca di Felix. Coesistono nel Felix di Studer alcuni aspetti della incontrollabilità e isteria di Amleto, il suo sentirsi ugualmente “offeso” dalla vita, al punto di trasformare l’Amore per Maria in morbosità per paura della solitudine. Manca in Felix la capacità d’azione per via della Malattia debilitante. Ecco quindi che il Felix di Studer è forse la parte sentimentale e dolorosa dell’Amleto dello scorso anno.
Il personaggio di Maria viene interpretato da una splendida Federica Gumina, che conferma la bravura recitativa, la costanza dei gesti e l’espressività studiata e calibrata, già manifestati nella Ofelia dell’Amleto dell’anno scorso. La sua performance è un crescendo di dubbi e ripensamenti, ma anche di gestualità ed espressività e di cambio di registro vocalico a volte, prima più controllata poi via via sempre più vibrante. Un mutamento interpretativo accompagnato con pazienza dall’attrice che modula voci, gesti ed espressioni sapientemente, senza fretta. È questa l’opera in cui le potenzialità di Gumina, anche quando lascia parlare i gesti, risaltano visibilmente rispetto alla dimessa Ofelia di Amleto dove erano però emersi i punti di forza di una recitazione accurata e meticolosa.
Davvero suggestivo il finale, tutto soprannaturale e metaforico del distacco del filo della vita di un uomo sconfitto dalle proprie paure, abbandonato a causa di esse, incapace di restare solo e di amare nel vero senso della parola. In questo Studer ci ha cercato di disegnare l’ultimo baluardo dell’uomo ottocentesco, emblema di quel romanticismo in cui Amare e Morire devono durare per sempre, inesorabilmente anche quando la Realtà e il Secolo breve avrebbero messo in dubbio definitivamente questa come ben altre certezze.