Al teatro Lo Spazio, fino a domenica 19 marzo, MEDEA di Antonio Tarantino, regia di Manuel Giliberti, con Cristina Borgogni e Annalisa Insardà.
Una parete di assi verticali e trasversali ad indicare una gabbia, divide il palco del teatro Lo Spazio in due ambienti. Sulla destra stracci accatastati, una panca e un bidone, connotano l’ambiente abitato da Medea. Sulla sinistra un’altra panca segna quello abitato dalla carceriera dell’eroina tragica. Una voce preregistrata dà avvio allo spettacolo, proietta lo spettatore oltre la tragedia, forse dopo di essa. Il carro del Sole: via di fuga per la Medea euripidea, che, discendendo da Elios, scappa dalla temibile legge degli uomini che vuole punirla per il sangue di cui si è macchiata, grazie al soccorso ricevuto dal padre.
La MEDEA di Antonio Tarantino non è volata nel sole. È in prigione, catturata dagli uomini, in preda al delirio, immagina il carro, la possibilità di fuga, l’irrazionale salvezza. Ciò che in Euripide era esito, qui si fa pretesto. Giustapponendo due donne, la carceriera e la carcerata, lo spettacolo si svolge attraverso un rimbalzo di parole e di luci tra i due ambienti e le identità non dialoganti. Due lunghi soliloqui a intermittenza. Le parole di Medea raccontano al pubblico dei suoi tormenti mentali e psichici sfiorando sia i temi classici del mito sia temi più attuali, contemporanei: l’ateismo, la ὕβϱις (tracotanza), lo φθÏŒνος των θεÏŽν (invidia degli dei) , la giustizia, i processi, i tribunali, la legge degli uomini, i permessi di soggiorno e lo ξÎνος (straniero), la barbarie, la magia, il femminismo, l’isteria, la violenza sulle donne, la loro impotenza, la depressione “sono buona, prendo il Tavor e gli antidepressivi”, l’espropriazione del proprio corpo in quanto donna e barbara “mica vengo da Kabul”. Le parole della carceriera commentano quelle pronunciate da Medea. Una legalmente imprigionata, l’altra legalmente libera, entrambe vivono in carcere. Una perché si è macchiata di un crimine, l’altra per sorvegliare e punire la criminale. In fin dei conti entrambe donne, entrambe espropriate delle proprie vite, entrambe incarcerate. Quasi alla fine dello spettacolo Medea travalica nello spazio scenico assegnato alla guardia. Anime affini. La guardia riconosce affinità, non la rinchiude. È la stessa Medea a ritirarsi nuovamente nella sua cella e, mentre ripercorre ancora una volta il delirio di un caldo padre che le invia il carro alato per ritornare al sole, la carceriera richiude la gabbia.
La quantità dei tòpoi affrontati, come si è detto, è stata spropositata; a discapito della qualità. Un vario minestrone di luoghi comuni, chiacchiericcio radical-chic dal vago sapore pseudo politico, pseudo sociale e pure, infine, pseudo teatrale. La regia di Manuel Giliberti, seppur aiutata da un ambiente scenico suggestivo, curato da Rosa Lorusso, ha costretto l’occhio dello spettatore ad una stasi soporifera: l’alternanza continua dei monologhi, dunque delle voci, dunque delle luci, ha reso il ritmo dello spettacolo monotono e l’evoluzione dello stesso prevedibile.
In questo esperimento di scrittura e regia poco riuscito ci sono però due aspetti meritevoli di nota: oltre, come si è detto, all’ambiente scenico, è doveroso porre attenzione alle interpretazioni delle due attrici. Annalisa Insardà nel ruolo della carceriera e Cristina Borgogni in quello di Medea, hanno dimostrato una competenza e un’abilità attoriali tali da riuscire ad emergere attraverso uno spettacolo a dir poco pericoloso e mutilante. Dal momento che hanno avuto la capacità di mostrare i loro talenti, addirittura in questa circostanza, ci auguriamo di poter goder ancora delle loro performances, in altri contesti.
Visto il 15/03/2017
Info
di Antonio Tarantino
regia Manuel Giliberti
con Cristina Borgogni e Annalisa Insardà
scene e costumi Rosa Lorusso – musiche Antonio Di Pofi