MEDEA @Teatro Greco di Siracusa: le maschere del mistero

Passa sulla Rai uno degli spettacoli di punta del ciclo di rappresentazioni classiche che la Fondazione INDA ha messo in scena quest’anno al Teatro Greco di Siracusa: Medea di Euripide con regia di Federico Tiezzi, un mistero antropologico incisivo e perturbante che fa ancora trepidare gli spettatori sulle gradinate, come un tempo, con la stessa forza misteriosa.

MEDEA, il dramma borghese

Medea, Il Coro della tragedia (F. Centaro ph)
MEDEA, Coro della tragedia (F. Centaro ph)

Una brillante versione della Medea, grazie alla regia di Federico Tiezzi e la traduzione, impeccabile peraltro, in equilibrio d’oro tra comprensibilità e decus, di Massimo Fusillo. Coerentemente con l’importanza della performance e l’eccellenza del cast che annovera grandi attori come Laura Marinoni e Roberto Latini, spunti diversi hanno illuminato il prisma dei valori dello spettacolo. È evidente lo spostamento della tragedia in area di dramma borghese: lo spazio scenico è assolutamente non classico, arredato da divani, sedie, poltrone e lunghi tavoli in bianco e nero, sfiorato solo da busti e colonne candidi di neoclassica nostalgia. Al suo interno si muove un coro femminile in abiti da operaie e cuffie blu che costantemente spolvera e pulisce, nel tentativo di mantenere un controllo che poi esploderà, nell’acme tragica, con fragore. In onore della seconda delle tre motivazioni base notate da Albrecht Dihle, che vedeva in Medea un carattere soprannaturale che l’allontanava dagli altri personaggi (Medea-demoniaca), un conflitto di culture (Medea-barbara), e infine il pathos violento dell’amore forzatamente interrotto, la Nutrice (Debora Zuin) è vestita dapprima come una cameriera personale ottocentesca in bianco e nero, ma poi si copre testa e spalle di uno scialle colorato e usa una recitazione straniante e un accento fortemente slavo per sottolineare la sua diversità – e ovviamente quella di Medea, in obliquo.

Specchi e maschere: MEDEA e  l’eredità di Pasolini

MEDEA, Laura Marinoni (F. Centaro ph)

Utilizzando una pasoliniana ‘estensione’, ovvero innestando episodi antecedenti o seguenti il plot classico nella storia,  la diversità barbarica di Medea era già stata suggerita dalla scena iniziale, nella quale i due semicori in bianco attorniavano una figura autorevole con una grande maschera di corvo nell’esecuzione di un rito articolato in lingua inintelligibile: Medea nella Colchide, sicuramente, sacerdotessa e maga, proprio come la vediamo nel film di Pasolini, il cui fantasma aleggia insistentemente nello spettacolo, officiare il sacrificio umano e aspergere i campi di cenere e sangue per incoraggiarne la fertilità. Pasoliniana in modo inequivocabile è anche la maschera fisica della protagonista, Laura Marinoni, il mediterraneo volto di una donna/dea che richiama senza esitazioni l’icona che Maria Callas ha fissato per sempre. E non bastasse, l’acconciatura con la sua rigida cresta di passamaneria e il mantello dorato dell’ultimo episodio sono uno schiocco di dita che incoraggia il collegamento tra le due rese visive, quella di Tiezzi e quella di Pasolini, in ogni spettatore. Come lo evocano anche le maschere animali, presenza potente che va oltre questo richiamo, ma che in prima istanza si avvicina alle acconciature ‘barbare’ dei due film classici di Pasolini, infilando, però, un cammino più lungo. Le maschere sono portatrici di significati, suggeriscono ciò che non si vede, diventano chiavi di lettura potenti.

Le maschere in MEDEA: potenti chiavi di lettura

MEDEA, Laura Marinoni (F. Centaro ph)

La maschera da corvo blu e nero, di Medea, completata dalle ali chiuse sul dorso della tunica blu e dalle ciocche blu nei capelli neri, non è assolutamente una maschera neutra. Tralasciando il collegamento del corvo con Apollo, colpevole di avergli inflitto il colore nero per errori commessi dall’animale nella vigilanza, antropologicamente il corvo è da sempre l’animale della sapienza (Huginn, pensiero, e Muninn, memoria, si chiamano i corvi di Odino) ma anche del passaggio, della metamorfosi, della morte come misterioso viaggio, psicopompo uccello di rapina: e proprio un corvo racconta il plot ai due protagonisti in Uccellacci uccellini. Il coccodrillo, impersonificato con una fisicità ineguagliabile da Roberto Latini (unico nel gestire la maschera come schermo e visiera: Medea si metamorfizza nella sua testa di uccello, o completamente, o parzialmente), è un Sobek egizio che, declinato qui come chiave di violenza e di prepotenza, ha in sé anche e soprattutto l’articolata pazienza, e non a caso finisce per concedere a Medea il giorno richiesto senza abdicare alle sue capacità di tramare e calcolare.

La Nutrice, il Pedagogo e i figli di Medea (ph. F. Centaro)
La Nutrice, il Pedagogo e i figli di Medea (ph. F. Centaro)

I figli di Medea indossano maschere di conigli bianchi, e giocano con bianchi coniglietti di pelouche, certo miti vittime ma anche, esattamente come li ha usati Romeo Castellucci nella sua Orestea, animali capaci di balzare nell’al di là, di cambiare dimensione, di precipitare in una tana senza fondo che poi, forse, è la morte. Come il Corifeo Coniglio di Castellucci inciampa e slitta nel lago di sangue prima che Egisto lo uccida e lo abbatta, così i figli di Medea vengono immersi nella luce sanguinosa e il loro destino viene evocato e concretizzato dal Coro che canta il Kindertotenlieder di Mahler, il canto sui bambini uccisi, ormai un classico dei recasting del teatro greco, non fosse che per la scena incredibilmente potente dell’Orestea di Anagoor in cui è Clitemnestra a cantarlo per la perduta Ifigenia. Le maschere animali sono evocative dunque di un mondo arcaico, quella classicità barbara che di nuovo piaceva a Pasolini; ma nel loro mistero silenzioso cooperano anche a connettersi con la visione psicologica, che il regista ha scelto come chiave di volta. In un salotto borghese alla Strindberg come può trovare posto un bestiario selvaggio? Lo hanno spiegato Freud e ancor più Jung, una volta per tutte: la parte nera della nostra luna, il nostro selvaggio, il nostro retroterra, abita in trasparenza qualsiasi salotto. Le maschere suggeriscono, sono lenti precise che indirizzano lo sguardo in questa direzione, dentro di noi, dentro qualsiasi nostro retroterra.

Non solo blu, non solo nero: i colori di MEDEA

Giasone (A. Averone) e il Coro (C. Aliffi ph.)

La tavolozza di colori del dramma risulta sempre efficace e coerente: se Giasone e Creonte indossano svelti e contemporanei completi neri, ed Egeo è un candido dandy, attorniato da una schiera di personaggi che impugnano aste di bambù come la celebre Armata di Naturae di Armando Punzo, il rosso è sempre sangue, e il Coro blu chiuderà lo spettacolo proprio spalmando sangue rosso sulla scena bianca davanti agli occhi esterrefatti e sbigottiti di un Giasone privato dei propri figli e ridotto a spettatore di un mondo in cui il sangue, non metaforico ma reale, dilaga: e la Lacrimosa di Preisner, in frammenti, singhiozza ciò che non si riesce a dire, ciò che Maria Callas nel film di Pasolini, quasi coperta dalle fiamme, urlava: “No! Non insistere ancora, è inutile! Niente è più possibile ormai!”   

visto su Rai5, il 15 luglio 2023

MEDEA

Regia Federico Tiezzi
Traduzione Massimo Fusillo
Costumi Giovanna Buzzi
Luci Gianni Pollini
Con Laura Marinoni, Alessandro Averone, Roberto Latini, Luigi Tabita, Debora Zuin, Riccardo Livermore, Sandra Toffolatti

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