Pino Carbone traduce la commedia di Eduardo De Filippo "IL CONTRATTO" in un linguaggio di nera ironia che impressiona e suggestiona il pubblico del Teatro Piccolo Bellini di Napoli, in scena fino al 1 novembre.
A distanza di trent'anni dalla morte del grande drammaturgo, i tempi cominciano ad essere maturi per approcciarne l'opera con uno sguardo non più e non soltanto fedele, il che non di rado finisce per significare non più e non soltanto banale. La responsabilità di chi, da napoletano, ha il coraggio di accettare questa sfida, è la responsaibilità non solo verso il teatro, e verso un teatro eccezionalmente ricco per tradizione come quello napoletano, ma verso un pezzo fondamentale del patrimonio culturale mondiale.
Il pericolo della fedeltà-banalità è tanto più incombente su chi accetta la sfida, in quanto il repertorio è tutto disponibile in versioni teatral-televisive che – per quanto preziose – rischiano di far confondere il teatro con la tv e l'infinità evenemenziale delle interpretazioni sceniche possibili con l'unica e sola interpretazione ripetibile (e quindi per definizione non teatrale) della riproduzione audiovisiva. E' il rischio dell'ortodossia, quello dal quale con coraggio e intelligenza il giovane Pino Carbone riesce a divincolarsi, riproponendo un Eduardo nero, espressionista, surreale, del tutto inedito.
Protagonista de "Il contratto"è Geronta Sebezio, personaggio losco che approfitta delle storture delle relazioni tra gli uomini, specialmente tra familiari, per manipolarle a proprio vantaggio, guadagnando illecitamente dalle successioni ereditarie a danno di chi, derubato, finisce paradossalmente per riconoscere Sebezio stesso come il proprio salvatore. Tutto avviene a partire da un cotratto, appunto, che Sebezio stipula con chi, ammaliato dalla sua fama di resuscitatore, ottiene di essere da lui resuscitato dopo la morte, a patto di praticare una vita amorevole e pia d'ora in avanti e di destinare una parte della propria eredità ad un parente finora maltollerato. E' proprio questo parente che, inviso agli altri familiari per aver loro sottratto una parte della torta, dopo la morte della controparte contrattuale cade nella rete predisposta da Sebezio: attraverso una serie di doppigiochi, passaggi di denaro poco trasparenti e manipolazioni comunicative che includono anche altre pedine tra cui un notaio, Sebezio riserva per sè una bella parte dalla fetta destinata al parente, mentre questi ne ricava quanto non avrebbe potuto sperare senza il suo 'miracoloso' intervento.
Interprete supelativo di Sebezio è Claudio Di Palma, circondato da sei attori puntuali ed energici. Si tratta di un cast omogeneo e affiatato, seppur diviso su due fronti fondamentali, dal punto di vista della disposizione prossemica, della conciatura costumistica e soprattutto dello stile recitativo: da un lato Claudio Di Palma e Carmine Paternoster vengono guidati da Carbone in una recitazione più naturalistica, dall'altro Anna Carla Broegg, Andrea de Guyzueta, Francesca de Nicolais, Giovanni del Monte e Fabio Rossi, sono spiccatamente epressionistici, soprattutto a livello mimico-gestuale. In questa eccessività dello stile recitativo, esaltata da quella dei costumi e delle maschere di Selvaggia Filippini e dalle musiche di Fabrizio Elvetico, nel suo conflitto con quella naturalezza recitativa pure conservata dall'altra parte del cast, sta la grande originalità dell'interpretazione registica, che è poi un'originalità non solo formale, ma di contenuto. Si tratta di una cifra non soltanto sensibile (è una qualità audiovisiva mai applicata ad Eduardo), ma simbolica: ne va della contrapposizione tra la sfera privata di Geronta Sebezio e la sfera sociale, quella che prende il là con l'apparizione della famiglia, primo e fondamentale luogo di indagine sociale nella drammaturgia dei giorni dispari. Cosa ne è del nostro privato, della nostra coscienza, del nostro vissuto, quando essi si collocano all'interno di una rete, familiare e sociale, tutta segnata dall'interesse egoistico piuttosto che dell'amore?
Su questo fondamentale interrogativo si struttura la scelta ermeneutica, che è anche luministica e soprattutto scenografica. La bellissima pedana circolare di Luciano Di Rosa letteralmente si allarga di atto in atto, a mano a mano che si procede dal privato al sociale, finchè nel terzo atto diviene addirittura pedana rotante: una giostra indirettamente manovrata da Sebezio stesso, un carosello in cui non si è che fantocci, maschere, pedine, marionette senza umanità nel teatrino ipocrita in cui l'interesse si traveste d'amore.
Questa metateatralità è aspetto centrale nella regia di Carbone. Sebezio dà i comandi per il giro di giostra, gli attori si vestono e svestono a vista, restano in scena quando i personaggi escono, parlano al microfono quando dovrebbero reggere piuttosto una cornetta, abitano un teatro restituito al grado zero del suo fondale nero (mentre nelle versioni di Eduardo era dettagliatamente dipinto o arredato), addirittura variano in corso d'opera i registri delle battute a seconda che il capocomico Di Palma-Sebezio ne sia più o meno soddisfatto.
Queste scelte interpretative portano in una luce piena alcuni aspetti del testo che nella versione teatral-televisiva di Eduardo restavano nell'ambiguità, essendo più sottilmente trattati dallo sguardo naturalistico del grande autore. Ovviamente, quando si guadagna qualcosa, inevitabilmente se ne perde qualche altra. In questo caso, molte sfumature psicologiche che quel registro più classicamente 'eduardiano' sapeva restituire a tutti i personaggi e non soltanto a Sebezio, vanno perdute. I rappresentanti della sfera familiare e sociale sono ridotti a maschere, il loro spessore appare schiacciato sui tratti estetico-caratteriali rimarcati. In questo modo, l'interpretazione data da Di Palma e Carbone al personaggio di Sebezio – per quanto questi sia ancora trattato con dei canoni estetico-recitativi nient'affatto esteriori, per quanto questi sia unico autore cosciente dell'impianto metateatrale che imprigiona gli altri personaggi, il che ne lascia indovinare sullo sfondo una certa libertà dalle meschinità sociali – gli sottrae quell'ambivalenza tutta umana che pure il testo eduardiano (e più ancora Eduardo stesso in alcune sue dichiarazioni) gli riserva.
Sebezio non era, per Eduardo, solo un caino, un impostore, un manovratore approfittatore: era un uomo con mille sfaccettature, addirittura una vittima piuttosto che un carnefice, un individuo non solo biasimevole ma anche degno di compianto. Era, in definitiva, un personaggio troppo complesso perchè possa essere restituito in toto dal taglio netto che Pino Carbone dà alla sua regia, la quale ha però il merito di aver ricreato Eduardo. Ricreato con coraggio, inventiva, acume, competenza, onestà: le qualità che servono ai teatranti per resuscitare Eduardo. Resuscitarlo, stavolta, senza compromessi, senza ipocrisie, senza banali quanto impossibili ripetizioni. Senza contrattazioni.