MARY SAID WHAT SHE SAID @ Teatro della Pergola: due punti di vista a confronto sul capolavoro di Bob Wilson

In esclusiva per l’Italia Isabelle Huppert al Teatro della Pergola di Firenze ha dato vita a MARY SAID WHAT SHE SAID, su drammaturgia, irregolare e incisiva e molto poetica, di Darryl Pinckney, e per la regia del maestro riconosciuto del teatro contemporaneo, Robert Wilson, con le musiche originali di Ludovico Einaudi

a cura di Chiara Guarducci e Susanna Pietrosanti che hanno assistito all’ultima replica: Gufetto vi propone i loro diversi punti di vista.

Maria Stuarda è ghiaccio incandescente – Recensione di Chiara Guarducci

Progetto di altissima arte e di impatto enorme su noi spettatori, in quanto l’astrazione di quest’opera espone tutti i timbri dell’anima, e andando oltre le emozioni ci porta nel sublime, ci fa vivere un’esperienza di pura e perturbante bellezza. Quella della Regina Maria Stuarda è una glacialità incandescente. Assistiamo all’epifania di una figura vivissima, ferita e indomabile. La regia di Robert Wilson sposa le espressività che danno forma al suo lavoro. La ripetizione, midollo della struttura, è lo stile originalissimo e innovativo di Wilson. L’andamento offre continue ondate e altrettante maree, anche attraverso movimenti minimi e pose da fermo immagine che restano indelebili grazie alla loro intensità estetica. Questa storia è sempre sul filo di un altrove. Lo sfondo di luce, su cui si staglia il corpo di Isabelle Huppert, dall’immobilità tesa ed estatica, varia dall’azzurro tenue, all’indaco, al blu, al grigio. Ma la prevalenza è una sospensione tra crepuscolo e aurora. Il punto esatto in cui la regina si trova in quel momento cruciale, mentre il fitto di ascese e cadute si riaccende. C’è sempre una riga bianca sul colore espanso, linea di cui cambia l’altezza, come l’orizzonte tagliente e ineluttabile di un fato, contro cui insiste a scagliarsi, alle soglie dell’esecuzione. Maria Stuarda ripercorre la sua vita ostinata, pregna di Eros e Tanatos, di passioni e misfatti, sempre audacemente in collisione con le fissità della Storia e con se stessa.
È un lavoro sul suono della parola a cui non abbiamo mai assistito. La cadenza sonora del fraseggio fa del testo una musica senza tregua che si intreccia alla composizione di Ludovico Einaudi. Mentre ascolto la Huppert continuo a domandarmi: come fa? Un capolavoro di attrice. La sua interpretazione è la radiografia del battere di un’anima fatale, che alterna l’attacco alla resa. La scansione precisa del dettato inizia a formare una tempesta e giunta al culmine segue la lentezza frammentata di un canto, la sacralità di un’intima tragedia. Sono i suoni a dire le lacrime. E piano piano questa voce denudata sale e sale, offrendoci l’esplosione di un’accelerazione irrefrenabile, da brividi, una masticazione, di reminiscenza beckettiana, che ricade ancora in tonalità oniriche, sperdute, quasi di preghiera. Partitura delirante e controllatissima, dove il tono passando dal freddo scende al materico degli umori e alle oscurità segrete e disarmanti della regressione. In un passaggio il corpo disegna movimenti di danza, risale una voce dolce ipnotica come un’infanzia, un’eco tra le risate fuori campo di una bambina. A un tratto lo strappo, si affolla in una nuova corsa e il suo corpo danza come tirato indietro da correnti contrarie, muovendosi tra i suoi fantasmi. E quando torna padrona dei suoi passi insegue persone, intenzioni, pensieri. Tanti interlocutori, tanti ricordi. La regina non ha più su di sé la luce e immersa in una cecità metaforica cammina la sua notte, da sonnambula, incantandoci in note vocali di dormiveglia. Altro passaggio memorabile. Lo sfondo si fa cupo e si ferma in un grigio scuro e sembra che il canto ferito si svuoti come le parole in prossimità delle ultime. È questa, a mio gusto, la scena più rappresentativa, l’acme più alto: in un’atmosfera di livore la regina si fa energica, furiosa e dietro a lei iniziano a pulsare le luci. Sta sferrando l’ultimo attacco, avanza e indietreggia come una guerriera. In lei ci sono tutte le battaglie. Riesce a farci vedere l’orda di un esercito.
Ovazione giustamente interminabile, pubblico in visibilio per un’icona che ha mostrato un’arte teatrale impeccabile e potente in ogni sua piega, una Isabelle Huppert estremamente inimmaginabile per chi l’ha ammirata al cinema, dove l’ambiguità dei suoi personaggi coincideva con una recitazione dall’inquietante pacatezza. Uno spettacolo di ineguagliabile connubio dalle affinità straordinarie.

Maria è una luminescenza che fa male – Recensione di Susanna Pietrosanti

Concerto per voce e musica. Ecco la definizione perfetta: una magistrale prova d’artista imprevedibile e talvolta perturbante per Isabelle Huppert, unica in scena, iconica come un enorme violoncello evocato dalla rigida posizione a polsi incrociati dietro la schiena, posizione mista tra preghiera e tortura, un violoncello vivente in grado di liberare il suo canto algido e perfetto, anzi di riprodurlo, con tecnica assoluta, reiterando quattro, cinque volte gli effetti previsti, l’innalzamento di una sillaba, o l’allusione a una risata. In grado di rendersi sinfonia, nuotando controcorrente alla colonna sonora di Ludovico Einaudi che sottostà al testo quasi sempre, potenziando, o contraddicendo, il canto polifonico che abbiamo la fortuna di ascoltare. Maria è uno strumento in grado di de-naturalizzare il proprio suono, porgendo il testo ad una velocità iperbolica, sempre di più, più oltre. Raggiunge, in complicità col trucco bianco da Joker, e ancor più con la gorgiera nera che le separa già il viso dal corpo, col risultato allucinato di una testa parlante, una specie di decapitazione già compiuta, un effetto talvolta ai limiti di quella bellezza aristotelica che è il terrore. Quello che troviamo bello ci fa tremare. O versare una lacrima, come capita all’interprete, nell’alto momento di spannung della prima parte: goccia breve, che insieme a qualche minima sbavatura ci rassicura che la superstar in scena è comunque, grazie al cielo, umana. Il suo alto stile non lo è quasi. Non lo è l’assoluta padronanza del movimento, la perfezione nell’uso delle espressioni facciali, che le permette una partitura angelica, il gesto stesso della mano sottile tesa in avanti, come una cieca che senza consapevolezza ripercorre una vita già giocata e di cui, come sempre avviene, non è facile comprendere il senso. Lo spettacolo, infatti, ambientato a Fotheringay la notte prima dell’esecuzione, è un andirivieni mentale fra ricordo e previsione, con ghirigori da incubo che costituiscono i punti di stallo di ognuno di noi, ciò che non riusciamo a superare, o non vogliamo dimenticare. Maria si muove lenta o frenetica nel suo personale labirinto, non la prigione, ma la mente. Gira su sé stessa come il piccolo terrier che, in video, ci accoglie all’entrata in sala, teso all’inseguimento della sua propria coda, o fermo, stupefatto, a guardarci: forse il cagnolino di Maria, che si nascose sotto le sue gonne durante la decapitazione; o la protagonista, occupata a riannodare, vanamente, il filo della sua vita; o il pubblico, che sarà beffato dall’impatto con la performance imprevedibile, come avvisa la scritta a termine del video: “you fool me I am not so smart”.
In realtà, non verremo beffati, o non molto – e forse, potremmo dire, non abbastanza. La sintassi di Wilson è completamente rispettata. La regia di luce, tipica del regista, che elimina ogni banale prospettiva di prigione per concentrare la storia sullo sfondo di un cielo proteiforme, diviso talvolta in strisce di colore, o sbarrato dall’occhio dilatato di una luce più intensa, è presente. La luce si assenta, talvolta, dal volto della protagonista, mettendone in risalto solo la silhouette, o imbianca al punto da renderla mimetica e confusa, come una perla bianca sulla pelle pallida di una dama, oppure la colora bruscamente di verde, costruendo la maschera di una strega di Halloween. Bellissimo. Ma prevedibile. Il tempo spazializzato, offerto come spazio da costruire e pensato esclusivamente attraverso il palco e il ritmo che regola i movimenti dell’attrice, è un altro tratto profondamente wilsoniano. Il senso di questo particolare tempo vive nell’alternanza tra lentezza e velocità, in modo tale che la diversità di ritmo si urti nella percezione: come in Einstein on the Beach, la diagonale ripetuta (otto passi avanti, otto indietro) della regina che si muove sul palco mentre la sua voce continua in registrato, ha l’effetto di provocare una diversa percezione di senso, un mondo che si muove su altri canoni, diversi da quelli consueti. Così la lentezza di alcune scene ha l’effetto, noto, di provocare l’ipertrofia dello sguardo: più gli attori si muovono lentamente, più si vedono cose. Esatto. E Mary Said è costruito esattamente come Einstein, ovvero sulla combinazione di strati vocali, musicali e verbali variati e replicati, in una drammaturgia di testo disperso che si fonda sulla ripetizione e sulla variazione: dire diversamente, dire o mostrare lo stesso diversamente, salvare la differenza, mostrare, in un presente continuo, il personaggio in un prisma di prospettive sempre minimamente divergenti.
Un capolavoro. O due? Qui nasce il dilemma. Ogni artista, certo, ha la sua sintassi, che lo rende insieme unico e riconoscibile. Ad ogni nuova prova, però, la sintassi si ridiscute, e si supera. Se ciò non avviene, il rischio di ridondanza e di prevedibilità si concretizza. Il titolo tautologico, forse, era una minaccia, e non avevamo compreso? Senza voler sostenere che il fine dell’artista sia la meraviglia, è tuttavia innegabile che l’arte è un cammino. Vorremmo essere messi in scacco. “You fool me I am not so smart” vorrebbe essere il nostro motto. Alla fine, rimpiangiamo l’inganno. Lo spettacolo ci sciorina davanti un’apollinea bellezza visiva, una perizia tecnica che fa quasi male, una lezione di alto stile, e soddisfa tutte le nostre aspettative. Ma ‘aspettativa’ è sinonimo parziale di ‘previsione’: disgraziatamente.

MARY SAID WHAT SHE SAID

regia, scene e luci Robert Wilson
con Isabelle Huppert
testo Darryl Pinckney
musica Ludovico Einaudi
costumi Jacques Reynaud
co-regia Charles Chemin
collaborazione alla scenografia Annick Lavallée-Benny
collaborazione al disegno luci Xavier Baron
collaborazione alla creazione dei costumi Pascale Paume
collaborazione ai movimenti Fani Sarantari
sound design Nick Sagar
make up design Sylvie Cailler
hair design Jocelyne Milazzo
traduzione dall’inglese Fabrice Scott
scene e accessori realizzati da Atelier Espace et Compagnie
costumi realizzati da Atelier Caraco
calzature realizzate da Repetto
produzione Théâtre de la Ville – Parigi
coprodotto da Wiener Festwochen – Vienna, Teatro della Pergola – Firenze, Internationaal Theater – Amsterdam, Thalia Theater – Amburgo
in collaborazione con EdM Productions
Spettacolo in francese con sovratitoli in italiano

Teatro della Pergola Firenze
13 ottobre 2019

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