Maldipalco 2020 – Il futuro del teatro?

Il progetto MaldiPalco è finalizzato al sostegno degli attori emergenti under 32 di tutta Italia. Ogni anno, ai vincitori della call nazionale, viene proposta una residenza creativa e una restituzione al pubblico del proprio lavoro nella rassegna Maldipalco, che richiama ogni anno artisti quali Roberto Latini, Saverio La Ruina, Silvia Battaglio.

I posti vuoti della platea del teatro Astra rendono ancora più scuro il nero della sala. C’è curiosità e un po’ di attesa per le proposte dei giovani finalisti di quest’anno. Dopo una breve presentazione dei quattro artisti, Salvatore Alfano, Matteo Cirillo, Lorenzo Terenzi, Gabriele Furnari Falanga, le luci si spengono e il primo artista è pronto a entrare in scena.

LA BESTIA, scritto, diretto e interpretato da Salvatore Alfano

Le luci si alzano sulle note di De Andrè. La scena è scarna: un microfono al centro del palco, una sedia da un lato e quello che sembra uno straccio rosa (e che poi si rivela essere una tuta da draghetto) gettato a terra, dall’altro. Il monologo comincia al microfono: è il discorso di addio di un figlio sulla tomba del padre. 
La figura paterna si staglia da subito come un monolite al centro della scena: soprannominato “La Bestia”, tiene comizi al bar e tutti lo adorano perché interpreta nei locali le canzoni di De Andrè. Il figlio rimane piccolo, minuscolo di fronte al suo fantasma. La recitazione è nevrotica, a tratti superficiale. L’attore corre, salta, col corpo e con la voce, ed è poco semplice da seguire. Non è difficile rilevare la presenza dell’Amleto: meno chiaro è se si tratti di frequenti citazioni o di una vera e propria riscrittura.
Molti argomenti appena accennati non vengono sviluppati: l’abbandono della madre tossicodipendente (Gertrude?), il compagno con la sindrome di Tourette (Re Claudio?) che si rivela essere soltanto una trovata comica poco riuscita, il rapporto complicato e insicuro del protagonista con le donne. Non è ben chiaro cosa voglia comunicarci questo spettacolo: il padre, che è al contempo una Bestia, una stella impossibile da raggiungere per quel figlio che non vuole crescere, un portavoce di una generazione ormai tramontata, rimane impenetrabile, così come il protagonista. Il problema, però, è che rimangono anche poco chiare le ragioni della sua impermeabilità: la comunicazione è impossibile tanto con il figlio, quanto con il pubblico. La regia è molto poco elaborata, senza nessuna vera intuizione originale. Persino la rottura della quarta parete si rivela uno stratagemma fine a se stesso. Nonostante il finale interessante, lo spettacolo rimane confuso. Bravo l’attore, per l’energia e l’uso della voce.

INTERNET SPARITO scritto, diretto e interpretato da Matteo Cirillo

“Spettacolo sociale, social e socialmente utile”. Così si legge sulla presentazione dello spettacolo. Non potremmo essere più in disaccordo. 
La voce di Toto Cutugno che canta “Lasciatemi cantare” inonda il pubblico, mentre si accendono le luci in sala. Sul palco appare l’attore, felpa larga da ballerino hip-hop, cappellino, pantaloncini. Insomma, lo stereotipo del giovane d’oggi. È in piedi in un lato del palco che poi si rivelerà essere il balcone del suo appartamento e cerca di far cantare il pubblico. Dopo qualche tentativo fallito la musica si abbassa e l’attore comincia a parlare: ci troviamo durante il lockdown e il protagonista mette la musica a tutto volume sul balcone per i suoi vicini.
A un tratto gli squilla il telefono: è suo padre, che in preda al panico vuole che il figlio lo aiuti a risolvere un problema tecnico: la “sparizione di internet” dal suo computer. Il figlio prende bonariamente in giro il padre, prova a calmarlo e a risolvere il suo problema: una trovata comica abbastanza semplice e stereotipata, dove il “vecchio” non sa usare il computer e il giovane lo aiuta dall’alto della sua competenza tecnologica.

La telefonata si chiude e il protagonista si affaccia al balcone, dove inizia a parlare al suo vicino di casa – un certo Simone – della sua indecisione cronica, degli insegnamenti di suo padre – a perdere e non a vincere – e della sua solitudine. In preda a questo estro filosofico decide di scrivere una frase su Facebook, ma non potrà farlo perché scopre che il suo account è stato disattivato. Disastro: con la sua sparizione dai social, il protagonista scopre di essere sparito anche dalla realtà. Nessuno lo riconosce più, né suo padre, né il suo vicino di casa, né il suo migliore amico. Poco per volta monta la crisi: si passa dal ricordo dei giochi infantili con il padre (tra l’altro resi in una maniera assolutamente patetica, con una scena al rallentatore in cui il padre spinge il figlio sull’altalena e il figlio urla “più in alto, papà”), alla perdita dell’identità a causa di internet e dei social, alla solitudine e la distruzione delle relazioni, all’assassinio di Willy (a nostro parere davvero di cattivo gusto), in un monologo sconclusionato in cui la parola “paura” è stata ripetuta un migliaio di volte, ma mai resa in modo convincente dall'interprete. Il punto più basso è stato raggiunto con la critica dei social come strumento di controllo: non appena il protagonista dice che “Arriverà il giorno in cui ci toglieranno le parole” inizia a muovere le labbra senza emettere suono. Almeno ha smesso di dire cose quali: “Mio padre mi ha insegnato che l’importante non è vincere, ma vivere”. Dopodiché ha inizio una scena fisica in cui il protagonista si copre il volto con delle emoticon delle chat di qualche social, finché non ne distrugge una e scopre nuovamente il suo viso. 
Crediamo che quanto detto finora possa rendere fedelmente lo spettacolo. Non possiamo non aggiungere, però, che il tema “Padri e figli” risulta a malapena accennato in questo lavoro. I temi come la solitudine, la società attuale e la pandemia globale risultano espedienti poco riusciti per invettive paternalistiche e stereotipate. Interpretazione mediocre, testo e regia deboli.

VOMITO scritto, diretto e interpretato da Lorenzo Terenzi

È difficile scrivere una recensione su questo spettacolo, perché è stato difficile seguirlo tutto fino alla fine. L’attore non si vede.  È una testa insanguinata che spunta da una scatola bianca, con una specie di muschio (insanguinato anch’esso) a mo’ di aureola. L’unico movimento è dato dalle espressioni esasperate della testa e dalla voce dell’attore, che in questo – per carità – è stato bravissimo. Il resto, tuttavia, lascia a desiderare.

La testa, dopo aver sputato una boccata di sangue, riversa sul pubblico quelle che pensa essere verità scomode, ma che, in realtà, non sono altro che una sfilza di luoghi comuni (a tratti anche un po’ classisti) di una generazione disincantata. La testa – ciò che rimane dell’essere umano – comincia il suo lunghissimo discorso con: “Ho paura di invecchiare”. Lo userà costantemente, prima per parlare senza peli sulla lingua della condizione degli anziani, poi per dire ciò che pensa sui bambini di oggi (in sostanza, lobotomizzati e storditi dai cellulari, incapaci di leggere e comprendere la realtà), per dire ciò che pensa dell’odierno mondo del lavoro, del cambiamento climatico e del futuro dell’umanità. Anche in questo caso abbiamo fatto difficoltà a trovare il tema “Padri e figli”, se non in senso (molto) lato.

La testa, si scopre alla fine, è tutto ciò che rimane di un essere umano: se non cambiamo, tutti saremo così, imprigionati dal cubo bianco dei nostri pregiudizi (l’attore ci ha tenuto a spiegare al pubblico il significato simbolico così insondabile della sua scelta registica). Come prevedibile, alla fine, la testa scompare dentro il cubo, sparisce nelle viscere del pregiudizio e, come ancora più prevedibile, dopo un momento di massima tensione, il cubo inizia a muoversi e a incrinarsi, rivelando l’umano nella sua interezza, che distrugge la scatola in una specie di danza tribale. Insomma, tutto ciò che la testa vomitante ha detto fino a quel momento viene rinnegato: perciò, ci viene da chiederci, che senso ha avuto per il pubblico averlo ascoltato? Che cosa rimane dopo aver sorbito per trenta lunghissimi minuti “tutto quello che abbiamo paura di dire per timore di essere giudicati” per arrivare a un finale così palesemente moralistico?

FIGLIO DI N. N., scritto e interpretato da Gabriele Furnari Falanga

Ci teniamo a citare da subito un punto di forza di questo spettacolo: l’utilizzo delle luci. Si rivelano infatti assolutamente funzionali alla scena e alla storia raccontata: ogni porzione di luce rappresenta uno spazio, un tempo, un’identità. Lo spettacolo inizia al buio: una voce racconta di una partita di calcio sotto il sole accecante e di un bambino che non sa rispondere a una domanda “Di chi sei figlio?”. All’accensione delle luci, silenzio. L’attore sta disponendo attorno a sé una serie di fogli, come a costruire e al contempo a proteggere la propria persona. Poi si sposta con una valigia. Cambia spazio, cambia tempo, cambia luce: ci troviamo nel 1945 e, come in un racconto epistolare, l’attore recita le lettere di un uomo inglese, Eddy, innamorato di Giulia, una donna italiana conosciuta durante la guerra e madre di suo figlio. I due pensano che la lontananza sia momentanea, ma la distanza tra loro diventerà sempre più grande, inestinguibile.
Da un certo momento in poi, il destinatario di Eddy cambia: non è più Giulia, ma Edoardo, il figlio rimasto in Italia e cresciuto senza di lui. È lui il protagonista, il fulcro attorno a cui ruotano diverse vite: Giulia, Eddy e il nuovo compagno di Giulia e che si è rivelato per lui il padre che pensava di non avere. 
La regia è curata nel minimo dettaglio e veramente fondamentale per raccontare questa storia. Il pensiero dietro alle luci e alla musica è fine. Gli oggetti sono pochi: le lettere e una valigia, per dare spazio al corpo e alle parole. L’interprete convince, anche se – come unica pecca – in alcuni momenti rischia di cadere nel sentimentalismo.
Nel complesso sembra che Furnari Falanga si sia preso cura di questo spettacolo come un genitore si prende cura di un figlio. “Figlio di N. N.” è una pietra preziosa che ha bisogno di qualche piccola modifica per diventare un gioiello: il migliore teatro giovane che, tra sussurri e poesia, ci fa guardare con speranza al teatro del futuro. Grazie a lui, abbiamo potuto lasciare la sala con un sorriso dietro la mascherina. 

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