“L’opera da tre soldi” (in scena allo Strehler di Milano fino all’11 giugno 2016) è stata scritta da Berthold Brecht (Augusta 1898- Berlino 1956) nel 1928 ed è fondamentale nella storia del Teatro non solo per la sua perdurante attualità, ma anche per essere il primo esempio di quel “Teatro epico” che il drammaturgo di Augusta ritiene l’unica forma drammatica adatta a portare in scena il mondo contemporaneo coinvolgendo e lasciando una traccia negli spettatori.
In tale forma teatrale in cui parola e musica sono sullo stesso piano (da qui il ruolo paritetico riconosciuto da Brecht ai musicisti con cui collabora e in particolare a Kurt Weill negli anni tra il 1927 e il 1930), la musica non rappresenta la colonna sonora della pièce, ma uno strumento per denunciare il malcostume della società. Ne L’opera da tre soldi i graffianti testi scritti da Brecht sono musicati da Weill con ritmi rielaborati da motivi di matrice popolare e jazzistica.
Drammaturgia e poetica di Brecht maturano nella Berlino degli anni venti che – nonostante la pesante situazione economica dovuta alle indennità di guerra imposte dagli Alleati alla Germania, la debolezza politica della Repubblica di Weimar, i gravi conflitti sociali – è una capitale pulsante di vita, humus ideale in cui si sviluppano movimenti innovativi (si pensi a Nuova Oggettività e al Bauhaus) e operano artisti che resteranno nella cultura universale come Otto Dix e George Grosz i cui disegni sono caratterizzati da un profondo sarcasmo sociale, lo stesso che ritroviamo nella breve ma intensa stagione del cabaret.
In un’atmosfera così culturalmente e politicamente effervescente (sono gli anni degli Spartachisti e di Rosa Luxemburg) e in cui il pericolo hitleriano è percepito solo dagli artisti, il teatro è al centro dell’interesse popolare: il giovane Brecht si stabilisce a Berlino nel 1924 e diviene Dramaturg al Deutsches Theater di Max Reinhardt, deus ex machina dei palcoscenici berlinesi. In quest’atmosfera unica (non se n’è più avuta una eguale né in Germania, né altrove) elabora il ‘Teatro epico’ per rispondere alle esigenze di quel “nuovo tipo di uomo” che l’utopia marxista si illudeva di poter creare.
In quegli anni Brecht inizia a collaborare con la giornalista e scrittrice Elisabeth Hauptmann che avrà un ruolo fondamentale nella nascita dell’Opera da tre soldi: non solo traduce dall’inglese la Beggar’s Opera (L’opera del mendicante) di John Gay (drammaturgo vissuto tra fine Seicento e i primi decenni del Settecento), ma ha l’intuizione di convincere Brecht ad adattare il testo originario all’atmosfera in cui vivevano.
L’opera di Gay conteneva già molte caratteristiche in linea con l’idea del teatro epico: l’alternanza di prosa con ballate musicali e brani operistici e una sferzante satira contro la società del tempo. Nasce così L’opera da tre soldi, uno dei testi più rappresentati al mondo probabilmente perché denuncia una corruttela presente, in modo più o meno accentuato, ovunque e che l’autore sintetizza con la lapidaria affermazione “come le idee e i sentimenti dei delinquenti di strada siano incredibilmente simili alle idee e sentimenti della solida borghesia”. Il debutto avviene il 31 agosto del 1928 con la regia di Erich Engel inaugurando il restaurato Theater am Schiffbauerdamm.
La messa in scena del 1928 rispecchia l’atmosfera e le tensioni della Germania di quegli anni, caratteristiche che certamente non si trovano nella prima edizione italiana realizzata nel 1956 da Strehler (con Milly, Mario Carotenuto e i giovani Tino Carraro e Marina Bonfigli) che è un sasso nelle acque stagnanti della cultura italiana degli anni cinquanta (è l’epoca in cui il neorealismo viene bollato come nocivo all’immagine di un’Italia in crescita).
Una grande opera teatrale non è un pezzo da museo, ma deve vivere nel cuore e nella mente degli spettatori e – nel rispetto del testo e dello spirito dell’autore – deve trovare rispondenza nell’atmosfera culturale del periodo in cui è realizzata: la seconda messa in scena di Strehler (1973 con Milva, Modugno, Giulia Lazzarini, Gianrico Tedeschi, Gianni Agus e Giancarlo Dettori) è quindi diversa perché differente è il contesto del Paese (c’è stato il ’68 e si è nelle tensioni degli ‘anni di piombo’).
La lettura di Michieletto non può e non deve, quindi, essere paragonata a quelle che l’hanno preceduta: sono passati oltre quarant’anni dal 1973 e Michieletto – che in quell’anno non era ancora nato – esprime una cultura del tutto diversa (si pensi agli eventi accaduti in Italia e in un mondo sempre più globalizzato).
Peraltro rispetta scrupolosamente il testo e lo spirito brechtiano – anzi ne recupera la completezza musicale anche a livello di strumentazione grazie alla collaborazione del validissimo Giuseppe Grazioli che dirige l’Orchestra Sinfonica Giuseppe Verdi – inserendoli nell’odierna atmosfera che per molti aspetti richiama quella della Berlino del 1928 senza però la vivacità culturale.
Originale e significativo aver ambientato i circa tre giorni in cui si svolgono le vicende di Mackie Messer, Jonathan Peachum, Jenny delle spelonche… all’interno di un’enorme gabbia processuale in cui sono racchiusi non solo l’imputato Mackie, ma tutti i protagonisti e comprimari (cioè tutti noi colpevoli o innocenti, ma l’indifferenza non è forse una colpa?) a turno giudici nel processo e protagonisti degli eventi.
La grande gabbia è il nostro mondo di opulenza in cui con grande miopia vorremmo chiuderci (simbolo purtroppo di muri reali che Nazioni che si definiscono civili costruiscono sempre più spesso) per difendere il nostro benessere, disposti tutt’al più a buttare qualche briciola agli affamati che premono contro le sbarre e vedono passare le ricche tavole imbandite, dimenticando l’affermazione di Brecht che “Se un uomo ha fame si ribellerà” (Finale secondo dell’Opera), ma disponibili a sfruttare le masse di diseredati come fa Peachum, figura forse più presente (e rispettata) oggi che nella Germania del 1928.
Michieletto con grande incisività ha attualizzato il testo e sottolineato certe affermazioni di Mackie Messer che paiono profetiche, ma non lo sono perché certe realtà economiche e di corruttela sono universali ed eterne.
Ottima la scelta di non puntare su cantanti che recitano, ma su attori che cantano (anche a rischio di qualche stonatura) perché rende l’essenza dell’Opera da tre soldi che non è un’opera lirica né un musical.
Un grande spettacolo – recitato con impegno da tutto il cast per cui sarebbe ingiusto fare segnalazioni particolari – da vedere e rivedere e di cui la cultura italiana deve essere grata al Piccolo Teatro.